A Posillipo, l'inverno era considerato, ed era, un breve intervallo tra la stagione balneare terminata da poco, e la prossima in arrivo.
Tutti apprezzavano la nuova visione del mare, non più placido, ma burrascoso, diverso, affascinante.
C'era un rifiuto all'idea che potesse fare freddo, e infatti era raro vedere persone imbacuccate - al massimo coperte con una giacca a vento - anche perché, avendo incamerato tanto sole e tanto calore vivendo all'aria aperta durante la primavere e l'estate precedente, non recepivano il freddo.
Nelle sere d'inverno mi piaceva tanto scendere a Giuseppone.
Ad ogni curva della strada l'odore della salsedine arrivava più forte ed invitante, specie quando c'era vento. E quando c'era vento, e si arrivava allo slargo con la fontanella, un lampione solitario, sospeso in alto, dondolava impazzito, come una campana senza batocchio, illuminando alternativamente la torre di Villa Volpicelli, il bar ormai chiuso di Rosaria, parte della darsena, la finestra di Giovannina.
La piazzetta era deserta. Il ristorante chiuso a sua volta; i pescatori si erano rintanate nelle loro piccole case. La città risultava illuminatissima, dietro ad un mare nero solcato in orizzontale da onde lunghe bordate di bianco, che smorzavano la loro corsa contro la scogliera e l'imbarcatoio, e si ritraevano rumorosamente trascinando un po' di sabbia e qualche ciottolo.
Di giorno, invece, quando soffiava la tramontana, l'aria tersa sembrava di cristallo, e la cima del Vesuvio , a volte innevata, donava una pennellata di bianco che interrompeva tutti quei vari toni di blu, del cielo, della montagna e del mare increspato a scaglie d'argento. Era, come dicevo, una visione completamente diversa da quella estiva, quando all'imbrunire, sullo scivolo, erano tirati a secco i "canotti", che sarebbero stati affittati il giorno dopo. L'odore della nafta era sparito, ma la magia di quel posto, così intimo e particolare, continuava e continua ancora...
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