sabato 27 novembre 2021

Cosa vuoi fare da grande?

Carmela era rimasta vedova e aveva preso il posto del marito, portiere del palazzo nel quale abitavamo in inverno dopo le lunghe estati trascorse a Posillipo.

Era una donna anziana, dai capelli rossi, che distribuiva la posta e spazzava il cortile. La figlia Titina, per darle una mano, venne ad abitare con lei insieme al marito pompiere e alle loro tre figlie. La più grande delle tre, Elena, era mia coetanea e spesso veniva a giocare a casa mia. Vedevo suo padre in divisa, con il casco, ritirarsi sfinito e... lo invidiavo.

Tornava a casa e raccontava degli interventi della giornata: allagamenti, incendi, salvataggi di persone e animali, uso della scala Maginot per raggiungere tetti, alberi, cornicioni e terrazzi. 

E poi le autobotti, gli  idranti, la sirena... Invidiavo lui e i suoi compagni, per questa vita avventurosa costellata da atti di eroismo mai ostentati.

Forse la mia incondizionata ammirazione per i pompieri è nata proprio così. Tanto che quando a scuola alle elementari ogni anno la maestra dettava il fatidico tema "Che cosa vorresti fare da grande?", mentre le mie compagne scrivevano che avrebbero voluto diventare chi concertista di pianoforte, chi ballerina, chi violinista etc. (allora non c'erano le veline e le presentatrici televisive), io puntualmente scrivevo :"il pompiere". 

In terza la maestra si preoccupò, in quarta mandò a chiamare i miei genitori.

Mia madre mi iscrisse a una scuola di danza classica, ma i risultati non furono quelli sperati.

In quinta, al solito tema, cambiai. 

Avevo letto "Ventimila leghe sotto i mari", e ne ero rimasta affascinata; inoltre avevo visto a Posillipo, sotto casa, un palombaro in azione. E scrissi quindi : "il Palombaro". 
Ma neppure questo tema andò bene...



venerdì 5 novembre 2021

Favurìte!

Non ne sono certa, ma mi piace pensare che augurare a qualcuno "buona giornata" sia una forma di saluto beneaugurante che appartenga solo ai Napoletani, e forse ai meridionali.

"Buona Giornata" vuol dire augurare una giornata lieta e serena, senza scossoni, senza brutte notizie, senza guai, scocciature e contrarietà.
Trovo che sia un augurio meraviglioso. 
Non saprei pensare che qualcuno possa rovinarlo dicendo magari "Buona giornata, neh!" .
Mentre il buongiorno classico è una forma di rispetto che si usa entrando in un locale, incrociando qualche sconosciuto in ascensore o in un palazzo, o come approccio per chiedere un'informazione, la "buona giornata" è invece una forma di ringraziamento cordiale.
Si dice "buona giornata" alla cassiera del supermercato, al salumiere che ci ha servito al banco, al postino che ci consegna la posta, al giornalaio, al tabaccaio, al farmacista...
Mentalmente io plaudo sempre a chi ha coniato questo saluto che mi mette di buon umore e che invita a un'armonia tra gli esseri umani.

E poi ce n'è un'altra bellissima che purtroppo sta scomparendo : "Favurìte!" .
Un tempo, ogni volta che passavi sotto un palazzo in costruzione o in restauro, durante la mezz'ora di spacco vedevi muratori e operai con i cappelli di carta di giornale che, seduti a terra esausti, con l'immancabile birra da tre quarti accanto, addentavano il mezzo palatone portato da casa e farcito con frittata o polpette con la salsa, o altro. A chiunque passasse si rivolgevano con il "Favurìte!", retaggio rispettoso che significa "quel poco che ho sono pronto a dividerlo con te. Non posso mangiare pensando che tu non ne abbia". Che delicatezza di sentimenti!

Logicamente si rispondeva, e spero ci sia ancora modo di rispondere "Buon appetito!" .







mercoledì 20 ottobre 2021

La signora Fabris

Bella, alta, bruna, dai lineamenti perfetti, gli occhi scuri e scintillanti, un sorriso che comunicava tutta la sua gioia di vivere.
Chi ha frequentato Riva Fiorita non può non ricordarla: certamente non passava inosservata!
Era amica di tutti e tutti le volevano bene.
In tanti anni di permanenza a Riva Fiorita non c'è persona che l'abbia sentita dire una parola contro qualcuno.
Per lei tutti erano buoni, tutti belli, tutti bravi.
Era nata a Cava dei Tirreni, ma si riteneva napoletana, anzi posillipina, a tutti gli effetti.
Si chiamava Alberta, ma tutti la chiamavano Albertina e questo nome, forse proprio perché rapportato a lei, mi ha sempre fatto pensare ad una stretta di mano forte e leale di una persona sincera e gentile.
Innamorata della vita e del mare , era una signora di bei principi, di bei sentimenti, sempre pronta a stupirsi per una novità, ad entusiasmarsi per un successo altrui, a partecipare con affetto vero ad una gioia o ad un dolore di un conoscente.
Mi piace ricordarla mentre declamava una poesia di Viviani ad una festa sulla terrazza dello Stabilimento, o quando risaliva da mare tutta ricoperta di alghe per fare divertire i bambini della spiaggia, o dopo la messa alla chiesa di Bellavista, circondata da ragazzini festosi.
Anche lei è un personaggio indimenticabile di Riva Fiorita.









lunedì 27 settembre 2021

Estate a Posillipo

Accompagnata da Luigino, fruttivendolo del Rione che all'occorrenza si improvvisava chauffeur, scendeva a Giuseppone la mattina presto insieme ai suoi due ragazzini - una bambina e un maschietto che poi diventarono miei allievi alla scuola di nuoto. 
Era una giovane signora, alta, slanciata, molto bella, con i capelli biondi, gli occhi azzurri e un gran bel sorriso. Si chiamava Grazia, e mai nome fu più appropriato. 
Si era sposata giovanissima con una cara persona, un brillante chirurgo più grande di età e insieme erano andati ad abitare nella villa di famiglia al Rione Spinelli (rione costruito dal nonno di lei). 
A Giuseppone l'attendeva Totonno, uno dei figli di Barbetta, con il suo gozzo bianco e celeste tirato a lucido. Li aiutava a salire a bordo con tanto garbo e li accompagnava alla baia di Trentaremi, che allora era l'alternativa al Cenito -essendo anche meno frequentata- e si ancorava lì. 
La signora Grazia, dalla risata contagiosa, era radiosa, sorridente, contenta, semplice e gentile, fiera dei suoi ragazzini. Totonno la guardava con adorazione, e dal modo in cui lo faceva non si poteva non intuire che ne fosse segretamente e dolorosamente innamorato. 
Bagni, tuffi, calate, risate, richiami e saluti da altre barche: la mattinata passava velocemente. 
Luigino fruttivendolo chauffeur, puntualissimo, a ora di pranzo tornava a prendere i suoi passeggeri e li riportava su al rione abbronzati e felici .

La baia di Trentaremi vista dal parco Virgiliano - foto da mapio.net

I Lo Russo

 ...e poi arrivarono a Riva Fiorita i Lo Russo.

Tre fratelli, di cui due gemelli e le loro famiglie. 

Raoul, con la splendida e carissima moglie Caterina e le loro tre bambine; Gustavo con la moglie e i due biondissimi bambinetti, Antonio, padre di Gabriella, ragazzina in fiore che fece strage di cuori tra i suoi coetanei. Belli loro tre, belli i loro discendenti.
Raoul dal sorriso sornione e dolcissimo, occhi chiari, innamorato della sua Caterina, toscana di Siena, che per lui aveva divorziato da un matrimonio precedente. Belli, felici, uniti; genitori di due ragazzine aggraziate, con una classe innata, e di un'altra piccina altrettanto graziosa che seguiva le orme delle sorelle. 

Gustavo, pittore delicato di paesaggi e ottimo ritrattista, conquistò tutte le madri di Riva Fiorita immortalando su cartoncino le espressioni dei loro bambini. Ero anch'io in lista d'attesa per far fare il ritratto ai miei bambini, ma poi partii e non ci fu più tempo.

Antonio era il più singolare dei tre. Fece immediatamente amicizia con tutti, ed era l'idolo dei ragazzini. Vestiva in modo eccentrico, faceva la verticale e camminava sulle mani lungo la scogliera. Una volta portò a Riva Fiorita una volpe che voleva addomesticare, ma fu morsicato prima che questa fuggisse. Si parla ancora delle sue trovate stravaganti e lo si ricorda con un sorriso.

Antonio Lo Russo con Chiuvillo a Giuseppone


lunedì 23 agosto 2021

La rada del Cenito

E' soltanto cambiata la tipologia delle imbarcazioni, ma la rada del Cenito continua ad essere il punto di ormeggio e di ritrovo per i natanti appartenenti ai napoletani che in estate rimangono in città.

Si tratta di un'ampia insenatura dominata a sinistra dallo chalet di Villa Gallotti, costruito sulla sommità di una grande grotta, e a destra dalla villa Carnap, che si intravede dal mare immersa nella vegetazione del suo parco.

Guardando verso terra, un'altra alta grotta, in parte murata, si trova in fondo alla spiaggia dalla rena sottile alternata a delle chiane ricoperte di alghe; le stesse alghe verdi che spesso si ritrovano pescate sulle marre delle ancore quando queste vengono salpate.

Mi sono spesso chiesta il significato del nome Cenito, ed ero arrivata alla conclusione che potesse essere un vezzeggiativo del nome latino "Sinus", che vuol dire "rada".

Giovanni Caputo, esperto e bravissimo attrezzatore di barche d'epoca, ha scoperto invece che "Cenito" è anche la prima persona di un verbo latino che significa "Io sono solito mangiare" .
E allora il pensiero è tornato ancora una volta al caro Proggiolone, dai capelli ricci, gli occhi azzurri e il sorriso sincero; al suo mitico richiamo " Chimivuoooolee! " che ancora aleggia in quel luogo dove lui con tanta gentilezza distribuiva i suoi meravigliosi panini. E questa -secondo Giovanni e anche secondo me- è una singolare, simpatica, suggestiva coincidenza che ha forse avuto anche il valore di una profezia. Chissà...



venerdì 23 luglio 2021

L'Olandese Volante

C'era un cargo, soprannominato "L'Olandese Volante", come il vascello fantasma che secondo la leggenda solca i mari in eterno senza mai una meta precisa.
Proveniva da Iskenderun in Turchia, diretto verso il centroamerica. Si Chiamava Doris, e affondò nel porto di Napoli dove aveva fatto tappa durante una forte mareggiata, nella quale la poppa andò a scontrarsi sulla scogliera frangiflutti. Era il 14 ottobre del '64.
Affondò e lo scafo giace tuttora nel porto a 24 metri di profondità nei pressi del molo San Vincenzo.
Certo, è sempre triste quando una nave cola a picco, ma due dei marinai che conoscevano l'entità e il valore del trasporto che avrebbero dovuto effettuare, si attivarono subito allertando i contrabbandieri di zona.

A quel tempo, a Napoli i subacquei non erano tanti, e i più bravi si trovavano in Sardegna a fare fortuna raccogliendo i coralli. In gran segreto, fu contattato un giovane che lavorava saltuariamente per la Pirelli Cavi, e che quindi era abituato a scendere ben oltre i 24 metri. Dopo gli accordi, il ragazzo iniziò a lavorare sul relitto. Prendeva servizio di notte e scendeva con una torcia e andando a colpo sicuro dietro indicazione dei marinai.
La nave trasportava ricchezze e manufatti dall'oriente, spezie, stoffe, sete, liquori e tappeti. 
I contrabbandieri erano interessati più che altro ai tappeti. A questo esperto sub ci volle poco più di una settimana per liberare la stiva. Tramite imperscrutabili canali, si sparse immediatamente la voce della disponibilità di tappeti autentici e a buon mercato e ci fu chi fece effettivamente affari d'oro dalla rivendita di quelli recuperati dal relitto. 
La richiesta era continua. Conoscevo il giovane subacqueo, che mi raccontò con ilarità di come il carico di tappeti da lui recuperato sui fondali del Molo San Vincenzo fosse andato esaurito molto rapidamente, e che i contrabbandieri alimentavano il business comprando tappeti scadenti di produzione locale, immergendoli una notte in mare e rivendendoli come autentici, accontentando un po' tutti nella convinzione di aver fatto un affare. Chi li comprava, nell'illusione che fossero stati recuperati dalla nave affondata, li sciacquava dall'acqua salata e una volta asciutti, li esponeva fiero in casa, pronti per essere mostrati agli amici.

L'inventiva napoletana riuscì addirittura a smaltire degli orrendi, pacchiani e coloratissimi scendiletto in ciniglia che rappresentavano il Papa (allora Paolo VI) avanti al colonnato di San Pietro. Anche questi, bagnati in mare ed esposti a Mergellina appoggiati ad asciugare sulle ringhiere tra i parapetti, erano in vendita facendo da sfondo ai secchi con i pesci e i frutti di mare.



sabato 5 giugno 2021

La solidarietà

Il primo evento catastrofico di cui ho memoria fu l'alluvione del Polesine.

Il 14 novembre 1951, dopo mesi di piogge abbondanti, il Po, ingrossato dalle acque dei suoi affluenti, ruppe gli argini e invase le campagne, prima allagando e poi travolgendo tutto.
In Italia ci fu una mobilitazione generale. Allora non c'era la televisione; le notizie si ricevevano dalla radio e dai giornali. Al cinema la "Settimana INCOM" (che era una specie dell'odierno telegiornale) mostrava le immagini della sciagura prima della programmazione del film, e solo così si comprese la portata di questo evento sconvolgente.
La "Rete Rossa" della radio, (l'equivalente dell'odierna Radio Uno, unica radio nazionale, che venne affiancata anni dopo dalla "Rete Azzurra") sospese tutti i programmi in segno di rispetto per i dispersi e gli sfollati. Si ascoltavano soltanto gli aggiornamenti sempre più catastrofici dell'alluvione. Sergio Zavoli e Silvio Gigli idearono insieme a Vittorio Veltroni, padre del politico Walter, la "Catena della Fraternità". Corrado, Ingrid Bergman e Delia Scala, invitavano con continui appelli a dare una mano a questi nostri fratelli sfortunati. Ricordo che ogni bollettino era preceduta dalla musica della Cavalleria Rusticana di Mascagni e dal Sogno di Bizet.

Noi bambini non sapevamo neppure dove si trovasse, il Polesine, ma a scuola la maestra ce lo insegnò facendolo vedere sulla mappa dell'Italia.
Eravamo tutti molto dispiaciuti e partecipi, e le suore ci portavano ogni giorno a pregare.
Tutti rompemmo i nostri salvadanai con i pochi soldini racimolati durante le feste e ci separammo a malincuore dai nostri piccoli giocattoli, ma orgogliosamente felici di fare anche noi la nostra parte. Le ragazze più carine della scuola, alla domenica, guardate a vista dai loro padri che sostavano sui marciapiedi di fronte, raccoglievano le offerte ai due caselli dell'autostrada per Pompei, e in cambio offrivano una spilletta con un minuscolo nastrino tricolore. E tutti se l'appuntavano orgogliosamente in petto, bene in vista, per dimostrare che avevano fatto il loro dovere, e avevano partecipato con affetto alla rinascita di quella terra sfortunata, immedesimandosi nella tragedia che aveva colpito tante famiglie.
Noi bambini, tramite le scuole, venivamo smistati fuori alle chiese dopo la messa.
Ricordo che a me toccò la chiesa di Santa Brigida e mi detti un gran daffare invitando familiari vari e amici dei miei a riempire con le loro offerte il cestino che mi era stato consegnato e che orgogliosamente restituii stracolmo. Intanto la radio continuava a trasmettere notizie sempre più drammatiche. Si contarono più di cento morti e 180 senzatetto, oltre a molti dispersi. Gli appelli continui alla solidarietà produssero una mobilitazione nazionale. Furono raccolti materassi, coperte, vestiti, medicinali, generi alimentari e di prima necessità. Nello spazio di 24 ore furono raccolti cento milioni, dopo una settimana si arrivò a 700. Ogni giorno c'era l'aggiornamento per regione: la Campania fu quella che offri più di tutte, insieme alla Sicilia.
Ed io che allora avevo 10 anni, ero fiera che la mia regione fosse quella che aveva donato più delle altre e pensavo fiduciosa che nessuno è solo, che donare è una gioia e che la solidarietà è un dovere che coinvolge tutti. E una volta era davvero proprio così, ed era bello rendersi e sentirsi utili.









martedì 18 maggio 2021

Gli Scafi Blu

Eravamo una banda di ragazzini scalmanati.

Già noi della villa eravamo in sei, ai quali si aggiungevano gli ultimi quattro figli dei sette di Donna Rosa e Don Alfonso, custodi di Villa Fernandes, ma anche giù a Villa Gallotti c'erano altri nostri amici. Stavamo sempre insieme. e giocavamo nei viali e sulle terrazze. E dalle terrazze assistevamo al passaggio di motobarche, gozzi, dinghy e cutter.

La festa grande era quando vedevamo spuntare da ponente la Amerigo Vespucci, che traversando a vele spiegate il golfo, andava a posizionarsi al porto.
Che splendore e che emozione vederla!
Lasciavamo tutti i nostri giochi e la seguivamo con gli occhi finché non scompariva alla nostra vista.

Almeno una volta in estate -non saprei per quale evento o circostanza particolare- arrivava la flotta navale della nostra Marina Militare,
Era una processione di navi grigie che entravano nel golfo mantenendo tra loro una distanza prestabilita, sempre uguale. Aprivano il corteo gli incrociatori, poi c'erano i cacciatorpediniere, le fregate, le corvette, i pattugliatori. Ben istruita da mio nonno materno, comandante di Marina, le riconoscevo tutte. I sommergibili erano gli ultimi a comparire, a chiusura della parata. Tutte le unità si posizionavano fra la Base Navale, il Porto e lo specchio d'acqua antistante Via Caracciolo. Tutto questo avveniva fino alla fine degli anni '50.

Successivamente lo spettacolo cambiò. In quel periodo "la metà della popolazione di Napoli vendeva sigarette di contrabbando all'altra metà", come recitava in maniera esagerata un detto dell'epoca, ma che rende l'idea di quanto il fenomeno del contrabbando fosse diffuso.
Cominciarono a circolare le sigarette americane, e si videro per la prima volta mastodontici e velocissimi motoscafi blu. Avevano una forma particolare: il vano tra le due fiancate era ampio, piatto e incassato, studiato apposta per accogliere le casse di sigarette che sarebbero state scaricate al largo dalle navi mercantili attraverso marinai "compiacenti", prima che le navi stesse potessero entrare in porto.
Tutti sapevano, ma sapevano anche che questo commercio illegale dava la possibilità a tante famiglie di sopravvivere e di non delinquere in modi più pericolosi.
Al tramonto -o la sera tardi- andava in scena quasi quotidianamente l'inseguimento di questi motoscafi da parte dei mezzi della Guardia Costiera e della Finanza. 
Gli Scafi Blu erano molto più veloci, volavano e rimbalzavano sull'acqua sbatacchiando, anche perché partivano vuoti da Vigliena. Venivano inseguiti e minacciati con il megafono e le sirene: l'azione aveva inizio.
Da terra tutti seguivano l'evolversi della situazione, ogni tanto dalla paranza si staccava un motoscafo che fungeva da esca, facendosi raggiungere per distogliere l'attenzione dagli altri. Veniva requisito e in attesa di accertamenti veniva esposto -quasi come un prigioniero di guerra- affinché si sapesse che la lotta al contrabbando era sempre in atto. 
Anche a Giuseppone, sulla piazzetta, stazionò a lungo uno di questi scafi blu, che in genere erano intestati a persone anziane e nullatenenti del Pallonetto di Santa Lucia, alle quali, in cambio di una piccola cifra, veniva fatto firmare l'atto di acquisto (!).
Tutto questo durò per anni. Purtroppo successivamente i contrabbandieri trovarono più conveniente dedicarsi al traffico di droga. E quello che allora tutto sommato veniva considerato un reato minore e piuttosto tollerato, fu accantonato per questa dannata, criminale forma di arricchimento.



Contrabbandieri





domenica 4 aprile 2021

Il gelataio attore

Era un piacere entrare da Bilancione.

Vaschette di tutti i colori contenevano i vari gusti dei gelati, e guardandoli e scegliendoli, già si pregustava il sapore che avrebbe accompagnato la nocciola nel cono gigante. Sì, la nocciola era d'obbligo!
Era il gusto più richiesto, e veniva prodotta e rimpiazzata continuamente nell'espositore. 
La si abbinava al cioccolato, alla crema, al caffè, ai frutti di bosco, alla fragola... Tutti i gelati erano buoni, ma questa nocciola, la "Nocciola di Pietro Bilancione", aveva ottenuto un premio nazionale di qualità, come attestava orgogliosamente una targa presente nella gelateria.
E poi c'era lui alla cassa. Il creatore di questa prelibatezza, che da bambino aveva recitato con Vittorio de Sica in una memorabile partita a scopa nel film " L'Oro di Napoli".
Accanto alla cassa c'era incorniciato un ritaglio di giornale con una sua fotografia scattata in quell'occasione. In effetti, anche dopo tanti anni, era riconoscibilissimo; aveva conservato nel tempo l'aria seria che lo aveva consacrato, piccolo, grande attore. Molti gli chiedevano del film, e lui indicava il pezzetto di giornale, messo lì apposta non per vantarsi, ma per non essere costretto a ripetere sempre la stessa storia. 

Il locale era sempre affollato, lo spazio interno era ridotto. Il gelato si gustava all'aperto, si attraversava la strada, ci si affacciava alla balaustra che da' su Villa Martinelli, fra Villa Elisa e Villa Mazziotti, e si godeva di questa delizia abbinata spesso alla visione di vele lontane, candide e silenziose, che si rincorrevano al largo nel golfo, inseguite dal vento.





venerdì 19 marzo 2021

Don Lemporio

Accanto alla ex fabbrica di ghiaccio, poi diventata deposito della Birra Peroni, c'era una minuscola bottega -o meglio, un bugigattolo, grande forse come un box auto- che aveva la pretesa di essere un emporio. Si trovava prima di Piazza San Luigi, quasi di fronte al ristorante "Le Terrazze".
Apparteneva a un signore gentilissimo, simpatico e garbato, che prendendosi in giro diceva che questi erano i "Grandi Magazzini" di Posillipo. Aveva una faccia sorridente, tranquilla, i baffetti sottili e brizzolati. 
Non sapendo come chiamarlo, tutti lo chiamavano Don l'Emporio, che in seguito diventò "Don Lemporio". 
Al mattino apriva le ante della piccola bottega e appendeva ai chiodi appositi i cartoni con le pentoline per la cucinella delle bambole, i coppi (adesso si chiamano retini) per la pesca, i fuciletti di legno e di latta per i bambini, le lenze di nylon avvolte attorno a rettangoli di sughero, un cartone con i soldatini di plastica, etc.
All'interno le cose più disparate: spaghi, nastri, palline ripiene di segatura con l'elastico per lanciarle, figurine di calciatori, fionde, strummoli, orologini finti, occhiali di plastica, piccole cose, giocattoli innocui che facevano felici i bambini di una volta.
La mercanzia esposta cambiava a seconda della stagione e delle ricorrenze. In estate chiaramente tutto quello che riguardava il mare: secchielli, innaffiatoio, passino, formine. A Carnevale maschere di cartone, cappelli da fata, trombette, coriandoli, stelle filanti. A Natale palline colorate, fili d'argento, candeline da fissare sull'albero. In inverno, insieme alle cucchiarelle di legno, i forchettoni, ai mestoli e alle schiumarole, sempre presenti, avresti potuto trovare la padella di ferro forata per cuocere le caldarroste. 
E questo era il segno che un altro anno era trascorso.

Foto di repertorio - dall'archivio dell'artista Vittorio Pandolfi



lunedì 1 marzo 2021

Vincenzo "Manomozza"

Dignitoso fino all'ingenuità

Nacque nel 1892 a Villa Volpicelli, in una minuscola casa in fondo al giardino, dove il padre Nunziante, allora giardiniere della villa, viveva con la moglie. Lo chiamarono Vincenzo. 
Ragazzino sveglio, vivace, pieno di inventiva, diventerà presto un giovane aitante, desideroso di trovare quanto prima una fatica. La tentazione di lavorare al cantiere, nelle grotte dei Gallotti, era forte. Era ancora un ragazzo, sposatosi molto giovane, quando si presentò al Barone Tristano e venne assunto. 

Onesto. preciso, puntuale, affidabilissimo, diventò -come si diceva allora- l'uomo di fiducia dei Gallotti. Nutriva per loro una forma di venerazione, dovuta anche al rapporto cordiale che il Barone e i suoi figli instauravano e hanno sempre instaurato con i loro dipendenti.

Le grotte, alte, profondissime e in successione, ospitavano un cantiere navale e un'importante officina meccanica nella quale più tardi verranno costruiti alcuni pezzi che completeranno l'assemblaggio e il collaudo degli idrovolanti. Tutto si svolgeva tra le grotte e la rada dell'attuale Riva Fiorita. C'erano però due scogli affioranti che costringevano a una manovra fastidiosa durante il varo. Vincenzo si recò dal Barone e gli propose di utilizzare due cariche di esplosivo che avrebbero risolto il problema, e tanto insistette finché non l'ebbe convinto. 
La prima carica brillò, decapitando uno degli scogli. La seconda purtroppo esplose prima che Vincenzo potesse allontanarsi a distanza di sicurezza. Saltò in aria, perse un braccio, e gli rimasero tre dita nella mano superstite, oltre a notevoli danni al volto.

Tramite l'interessamento della Regina Margherita, che quando era a Napoli veniva spesso ricevuta a Villa Gallotti, fu affidato alle cure del dottor Piromallo, che era allora in competizione con il famoso (e poi santificato) dottore Moscati, ma che niente poté per l'arto tranciato di netto.

E così per tutti, da allora, Vincenzo diventò "Vincenzo Manomozza".

Il Barone Gallotti, affranto dal dispiacere, si sentiva responsabile di questa sciagura, e gli offrì la casetta nella quale abitava a Giuseppone, più altri due piccoli appartamenti nella stessa palazzina. Ma Vincenzo non volle sentire ragioni. Rifiutò con veemenza, volendo orgogliosamente dimostrare che la responsabilità di questa sventura fosse soltanto sua, e desiderando scagionare completamente il suo datore di lavoro, che si era più volte opposto a questo intervento ritenendolo troppo rischioso.

Vincenzo non vedeva l'ora di riprendere a lavorare. Si costruì da solo una specie di manicotto come protesi per il moncherino, lasciando dei buchi al posto delle dita. Ad ogni buco corrispondeva un attrezzo: una lima, un piccolo martello, una raspa, un seghetto, che tirava fuori alternativamente con le dita superstiti dell'altra mano. Ricominciò a a lavorare al cantiere, e nonostante questa sua menomazione, si dedicò nel tempo libero al modellismo nautico. Riprodusse il Rex e l'Andrea Doria, e ricordo tuttora la fascinazione nel vederlo lavorare con tanta precisione.

Lo conobbi quando aveva più di cinquant'anni. Rimasto vedovo si era risposato, e veniva spesso dai Gallotti, ai quali era rimasto devotamente affezionato, accompagnato dalla sua bambina dagli incredibili occhi verdi. Continuò a lavorare al cantiere e ad organizzare il lavoro degli operai, anche quando i Gallotti cedettero la gestione. Quando il cantiere chiudeva andava a curare il suo pezzo di terra che tutti sapevano gli fosse stato donato "sulla parola" dal Re Vittorio Emanuele, che nel 1921 andò a vivere a Villa Rosebery. Con l'aiuto della moglie Concettina, in questo terreno abbandonato Vincenzo riuscì a coltivare cicoria, nespole, prugne, e addirittura tre filari di uva. All'interno di esso c'era una stanzetta con un focolare, e fuori una grande vasca per l'acqua piovana.

Il Re, che dal muro di cinta vedeva quest'uomo lavorare la terra, gliela donò, anche se non faceva parte della villa Rosebery (che comunque non era tecnicamente sua), e tutti hanno sempre apprezzato la buona volontà, e la capacità di Vincenzo di riscattarsi con il lavoro dalla sua menomazione. Ma un brutto giorno, un Ente morale accampò dei diritti di proprietà su quel terreno e intentò causa. A nulla valsero le testimonianze dei pescatori di Giuseppone (alcuni testimoni del "dono"), e neppure l'usucapione, che per pochi giorni non raggiunse i termini stabiliti. Per Vincenzo fu un brutto colpo.

Era ormai anziano. Aveva l'incarico di aprire e richiudere i cancello del cantiere.

Una sera, mentre si accingeva a mettere la catena e a chiudere il catenaccio, si presentarono l'onorevole Leone (che in seguito sarebbe diventato Presidente della Repubblica) e la moglie, esprimendo il desiderio di visitare le grotte. Vincenzo si mise a disposizione e li accompagnò. Dopo averlo ringraziato, Leone, sul punto di andarsene, chiese a Vincenzo per chi avrebbe votato, e lui, ingenuo e sincero, memore dei suoi "trascorsi" con i reali, rispose : "Dottò, io sono e sarò sempre monarchico!".

Non era certamente la risposta che il senatore si sarebbe aspettato di ascoltare.

Più tardi, quando i Leone erano ormai andati via, Ciro, portiere del parco, si fermò, con tono allusivo, a parlare con Vincenzo.

"Viciè, allora? E' gghiuta bbona 'a visita?"

-"Nun se ne jevano cchiù, l'aggio cuntato 'nu cuofano 'e cose!"

"E allora t'ha lassato 'na bella regalìa, eh?"

-"No! Pecchè, dice che m'avevano lassà coccosa?"

"Ma comme? Nun t'hanno lassato niente?"

-"No!"

 "Cose 'e pazze! E che t'ha ditto 'o senatore?"

-"Niente, me ringrazziaje... Po' vuleva sapè je pe' chi vutavo."

"E tu nun haje ditto: "Democristiano!" ?

-"Ma quanno maje! Je so' monarchico!"

"Viciè, tu ancora staje appriesso a 'stu rre? E chillo perciò nun t'ha lassato niente! Tu staje dinto 'a luna!"




martedì 9 febbraio 2021

L'Ostricaro

Fuori ad ogni ristorante che offriva principalmente piatti a base di pesce, c'era l'ostricaro. Figuriamoci se un locale come Giuseppone a Mare poteva farselo mancare. Aveva il suo banchetto a sinistra dei tre scalini dell'ingresso alla sala, ed era riconoscibilissimo per la scritta "Ostricaro" ricamata in bianco sulla maglietta blu. 

Giorni fa un amico di vecchia data, già brillante ingegnere, oggi placido pensionato. mi raccontava con un sorriso che il signore in questione era stato il suo primo datore di lavoro. 
In effetti, questo ostricaro veniva rifornito di taratufoli dai pescatori che molti avranno visto all'opera. In piedi nelle barche, coperti con grembiuloni di tela cerata fino alle caviglie, facendo una fatica immane anche per tenersi in equilibrio sulla barca oscillante, rastrellavano la sabbia alla ricerca di questi pregiati frutti di mare. I manici dei rastrelli erano lunghissimi: i taratufoli, una volta catturati, cadevano in un retino posto oltre i denti del rastrello stesso.

Il mio amico, uno dei primi a possedere maschera e pinne (si parla degli anni '50) sbaragliò tutti.
Scendeva sott'acqua al Cenito, sotto alle chiane dove i rastrelli non sarebbero mai potuti arrivare, scavava nella sabbia e con un bel bottino di "cape di morto" (così erano detti i taratufoli belli pieni pieni) andava a rifornire l'ostricaro in attesa. Il compenso pattuito gli permetteva di pagare l'affitto della barca e magari anche un gelato o un panino. 
A Posillipo i taratufoli erano presenti al Cenito e sotto allo scoglio a sinistra della Cajola, le ostriche -rifornite all'ostricaro da altri ragazzini- venivano raccolte sotto al serbatoio dell'acqua minerale a Villa Maisto.
Le cozze, invece, le trovavi un po' dovunque. Le più buone in assoluto erano quelle di Pietrasalata -forse perché crescevano in un luogo pieno di correnti-, poi c'erano quelle sotto alla terrazza di Villa Gallotti, piccole ma saporitissime, e poi ancora quelle enormi della tavola di mare a Trentaremi.

Man mano tutti noi comprammo le maschere e gli occhialini per andare sott'acqua, ma le prime si appannavano e i vetri degli occhialini uscivano dalla gomma dov'erano alloggiati, oppure facevano entrare l'acqua. Adesso le maschere sono ipertecnologiche. Noi per pulire il vetro dovevamo sputarci su o usare una mezza patata. 
Intanto l'ostricaro raccoglieva i frutti più belli dal suo banchetto, li adagiava su una spasella coperta di alghe e al cenno di un cameriere faceva il giro fra i tavoli.

Il banchetto dell'ostricaro a Giuseppone a Mare - Foto archivio Gennaro Improta fornita da Lello Vigilanti


domenica 7 febbraio 2021

Un po' di spese a Posillipo

I Posillipini "scendevano" a Napoli solo se costretti dalla necessità.

Si andava in città per lavoro, per pratiche legali, per operazioni bancarie, per visite mediche, per spese di abbigliamento, per acquisti di elettrodomestici.

I ragazzini dopo la scuola elementare "espatriavano" verso la Fiorelli, non esistendo a Posillipo una scuola media e solo così prendevano contatto con la realtà della città.

In effetti dal Capo a Largo Donn'Anna non mancava niente di essenziale. Dal Casale a Piazza San Luigi erano presenti 3 farmacie, 2 pompe di benzina. 3 bar, 4 salumerie, 2 macellerie, una merceria, un fabbro, un barbiere (Don Ciccio, chiamato Acquacalda), una ricevitoria del lotto, un bravissimo ciabattino chiamato "il Tenore" perché cantava ai matrimoni, la cartoleria emporio di Don Luigi e Donna Filomena, che si occupavano anche di raccogliere gli indumenti per conto di una lavanderia, due chiese e due chioschi di giornali.

Per la frutta, la verdura e il pesce, ognuno aveva il suo fruttivendolo e il suo pescatore di fiducia a cui rivolgersi.

Da San Luigi a Palazzo Donn'Anna, oltre all' Elettroforno, una latteria, una polleria, un'altra chiesa, un vinaio (o meglio vini e olii), la piccola ed efficientissima sede del Municipio dove ricordo il direttore , il dottor Lieto, gentile e simpaticissimo; ancora una merceria, un gommista, un altro tabaccaio, una parrucchiera, l'officina di Ninotto.

Il Largo Donn'Anna era già più "urbanizzato", in quanto esisteva un ufficio postale con solo due sportelli, dove gli anziani andavano a ritirare la pensione, dove si pagavano le bollette, dove si spediva la posta. Era un ufficio piccolissimo (attualmente al suo posto c'è il bar Moccia) dove l'attesa era piuttosto lunga, ma ampiamente mitigata dalla visuale fantastica che si godeva dalla finestra che dava sulla spiaggia dei bagni Donn'Anna e Elena e su tutto il golfo. E poi... quando mai i Posillipini hanno avuto fretta?

Era l'occasione per salutarsi, per scambiare due chiacchiere. Fuori alla Posta c'era il "nostro" Menichiello. Frutta e verdure scelte, turgide e coloratissime, affollavano il marciapiede. I fratelli Tremolaterra, Gigione e Salvatore, cortesissimi e sorridenti, accontentavano tutti illustrando la bontà della loro merce e delle loro primizie. Gigione era un pezzo d'uomo con gli occhi azzurri. Andava a fare le consegne con una Giulietta chiara. Salvatore, dolcissimo, alto e magro, lo aspettava nel negozio.

A Donn'Anna c'era un'altra ricevitoria del lotto, un piccolissimo negozio dove Strato vendeva le scarpette per i bambini, ancora una macelleria, ma poi c'era l'Emporio della famiglia Sisimbro.

Edicola, tabaccheria, cartoleria, vendite di detersivi, giocattoli, articoli per la pesca, maglieria intima, calzini... e certamente ho dimenticato qualcosa.

Si era accolti dalla signora Sisimbro e dal marito, dai figli Eugenio con la moglie Lucia, e Antonio con la fidanzata Antonietta. Antonio, rapidissimo a fare i conti, Antonietta con un'unica treccia bionda, Lucia con i profondi occhi neri, Eugenio cortese e svelto. Fare la spesa da loro era un piacere. Se avevi bisogno di qualcosa che in quel momento non era in negozio te la procuravano, e siccome tutti si fermavano da loro, potevi chiedere informazioni di persone che avevi perso di vista ma sapevi fossero loro clienti.

Il Largo Donn'Anna per i Posillipini rappresentava le "Colonne d'Ercole", mentre la Torretta a Mergellina con il mercatino, le bancarelle, il traffico, e il ritmo accelerato, poteva definirsi l'avamposto della città.

Palazzo Donn'Anna e la Costa - foto di CARLOM 


sabato 9 gennaio 2021

Il libro dei Racconti di Giuseppone

Dopo tanti anni, tanti racconti e tante richieste, è finalmente uscito il libro dei Racconti di Giuseppone.

E' possibile ordinarlo su Amazon, a questo link, e riceverlo in pochi giorni a casa.

"Storie, ritratti, ricordi di mare, persone e luoghi, in una Napoli ormai scomparsa. In una carrellata di racconti, le vite di un piccolo borgo sul mare, quello di Posillipo, un vero e proprio "villaggio" con le sue consuetudini, i suoi personaggi, le sue tradizioni. Un mondo fatto di rispetto, gentilezza e una invidiabile serenità -nonostante condizioni economiche non sempre floride-, di bei sentimenti, di persone che hanno lasciato ricordi struggenti e a volte comici, in un luogo di enorme bellezza. Un tempo che sembra lontanissimo, ma che si svela agli occhi del lettore trascinandolo in quell'atmosfera dalle tinte pastello che Maria Civita riesce a dipingere in poche righe. Pescatori, posteggiatori, baroni e venditori ambulanti, signori e scugnizzi, marinai e villeggianti, si alternano nei racconti formando un ecosistema perfettamente integrato, sullo sfondo degli avvenimenti di un'epoca (gli anni '50 e '60) che vede ancora Napoli come una capitale culturale. Una città operosa, vivace e piena di vita, lontana dai ritmi frenetici della nostra contemporaneità, che viene raccontata dal punto di vista di un quartiere periferico affacciato sul mare."

https://www.amazon.it/Racconti-Giuseppone-Storie-ritratti-ricordi/dp/B08R2C8RBT/ref=tmm_pap_swatch_0?_encoding=UTF8&qid=1610204832&sr=1-2


venerdì 8 gennaio 2021

Il Pittore

Fra gli anni '50 e '60 a via Chiaia, dove attualmente ha sede la filiale di una banca, esisteva una galleria d'arte. Era molto frequentata. Tutte le persone che facevano compere, allora si diceva commissioni, si fermavano a dare un'occhiata. A volte si trovavano occasione di tele del primo '900, a volte veniva esposto un mix di autori emergenti, altre volte una personale di un pittore contemporaneo.

Paesaggi, marine, barche tirate a secco, qualche ritratto, fiori, erano i soggetti ricorrenti.

Spesso l'artista che esponeva la sua personale era presente, e sedeva ad una scrivania in fondo alla stanza insieme al curatore della galleria. Si capiva dalla sua tensione che l'autore delle opere fosse proprio lui. Orecchiava per sentire i commenti, e scrutava i visi di chi osservava le sue tele, desiderando scorgervi un cenno di apprezzamento.

Una volta ci fu un pittore, dall'aria spocchiosa e dal baffetto supponente, che girava invece tra i visitatori pavoneggiandosi fra le sue "opere" che erano assolutamente fuori dagli schemi consueti.

Erano infatti tele astratte, con abbinamento di colori sgradevoli e luoghi di fantasia da interpretare. Il pubblico entrava e usciva rapidamente dalla galleria, non mostrando alcun interesse, anzi meravigliandosi per questa mostra, che in un certo senso squalificava le scelte precedentemente oculate effettuate dal gallerista.

Entrò finalmente una coppia che sembrava interessata. Un uomo corpulento, con la moglie vivace e minuta, si soffermarono davanti a un quadro, osservandolo a lungo. Poi passarono avanti, tornarono al quadro di prima. Lo osservarono da lontano... Il pittore, ringalluzzito, si presentò. Il signore, lasciato il braccio della moglie, chiese spiegazioni sul significato del primo quadro:

"Scusate, ma quella macchia nera che rappresenta?"

- "Ah! quello è il sole!"

- "Il sole? Ma quello è nero!?"

- "Sì, ma io lo vedo così! " - asserì gongolante e pieno di sè il pittore. 

- "E scusate, e quelle macchie viola in quella striscia gialla?"

- "Ah... Quelli sono gli alberi, e quella che lei chiama "striscia gialla" è un fiume"

- "Gli alberi viola? Il fiume giallo?" - chiese sbigottito il signore.

E l'autore , con sufficienza, rispose:

"Cosa vuole... Io li vedo così!"

Allora il visitatore della mostra non ne potè più e rispose: 

"E vuje co' ll'uocchie 'e chesta manera ve mettite a ffà 'o pittore!?"

E, irritato, convinto di essere stato preso in giro, uscì dalla galleria, tirato per un braccio dalla moglie.