mercoledì 30 dicembre 2015

Salvatore, il bagnino che non sapeva nuotare

Bassino, ma massiccio e robusto.
Sempre disponibile, sempre sorridente, sempre affannato, Salvatore è stato l'ultimo bagnino di Riva Fiorita.
Lo conoscemmo quando lo stabilimento aveva già chiuso.
Scendeva la mattina resto sulla spiaggia che rastrellava accuratamente e man mano che arrivavano i fortunati bagnanti che abitavano lì, piantava gli ombrelloni nella rena.
Afferrava il bastone appuntito e con grandi e ampi movimenti rotatori, lo fissava al suolo per almeno un terzo della sua lunghezza. Non ci sono mai stati venti improvvisi che giustificassero questo scavo accurato, ma in effetti nessun ombrellone, come spesso avviene, ha mai ceduto.
Era un bagnino particolare: non sapeva nuotare.
Era gentile e attivo.
Ebbe il suo momento di gloria quando una troupe cinematografica lo scelse come comparsa in un un film con Ilaria Occhini e Sergio Fantoni. 
Essendo scuro di pelle gli venne affidato il ruolo di "vu cumprà". Doveva spingere un carrettino con dei souvenir che avrebbe dovuto vendere a dei turisti che, seduti ad un tavolino di un presunto bar sulla piazzetta, venivano serviti da Torquato, anche lui prescelto in qualità di cameriere. Che risate!
La coppia di turisti era formata da Chiuvillo, biondo e distinto, e dalla signorina Bianca, che portando gli occhiali aveva un'aria da intellettuale.
Torquato doveva portare loro delle consumazioni, tra cui una birra. E fin qui andava tutto bene. Ma mentre il regista organizzava la scena, Chiuvillo aveva approfittato per... servirsi.
E si ricominciava daccapo. Altra birra, altro ciak.

Nel tardo pomeriggio Salvatore riponeva nelle cabine ombrelloni e sedie a sdraio, trascinando stanco i piedi nella sabbia e cercando di tenere a bada i ragazzini che premevano per poter avere la spiaggia libera e poter giocare al calcio.
"Guagliù, levate 'stu pallone 'a lloco" ripeteva per tutelare le poche persone irriducibili che sfruttavano fino all'ultimo raggio di sole.
A fine giornata si allontanava calzando dei sandali rossi col tacco del dottor Scholl.





domenica 29 novembre 2015

La portaerei Forrestal

Imponente, lenta, e silenziosa, attraversò il golfo e andò ad ancorarsi alla fonda fuori Castel dell'Ovo
Eravamo alla metà degli anni '50 e quella era la prima portaerei che vedevamo. Ci incuriosì non poco. Non si capiva quale fosse la prua e quale fosse la poppa. Era molto alta sul livello del mare, con una piattaforma enorme sulla quale poggiavano ordinati numerosi aerei da guerra.

Il patto atlantico era stato firmato da pochi anni. Si intuì subito che gli Stati Uniti, con la presenza di una loro portaerei in un golfo italiano, nel garantire la protezione delle nostre coste, manifestavano al resto del mondo la loro ormai conclamata egemonia nel mare Mediterraneo.

Noi eravamo ragazzini. L'America ci sembrava lontana quanto oggi appare lontana la luna ai nostri nipoti. 
D'altra parte allora gli States si raggiungevano soltanto via mare, e impegnavano quasi un mese di viaggio. Chi c'era stato raccontava di autostrade gigantesche, di grattacieli incredibili, di ragazzi minorenni che guidavano macchinoni enormi; tutti sognavano di potervisi recare un giorno.
Intanto ci accontentavamo di ascoltare i dischi di Frank Sinatra, di Frankie Lanie, Nat King Cole, del Platters, di Pat Boone. Ci impegnavamo a tradurre e a trascrivere i testi delle canzoni e così finalmente imparammo un po' di inglese.

Quando ci avvicinavamo con i gozzi alla portaerei, i marinai in jeans e camicia azzurra ci salutavano dall'alto con cordialità. Si seppe che alla Duchesca, con un tempismo perfetto, si vendevano i pantaloni di questa tela particolare, e tutti i ragazzi di Napoli, pur di emulare gli americani, si vestirono con quella che era la divisa dei marines. A Forcella si trovavano due marche di jeans: i Wescott, più leggeri, e i Lee, che vestivano meglio.
C'erano anche delle splendide maglie blu di lana, aderenti, con il collo allla lupetto e con l'etichetta U.S.A. . Le portavamo tutti; anche 'Zi Rafele, il marinaio di Riva Fiorita, ne possedeva una che indossava d'inverno. Ci sentivamo tutti un po' americani, anche perchè, a Posillipo e a Lucrino, vennero ad abitare gli ufficiali in forza alla NATO
Quasi in ogni villa e in ogni condominio c'era una famiglia d'oltreoceano. I proprietari delle case erano ben lieti di affittarle a cifre proibitive per gli italiani. Noi invece eravamo felici di aggiungere ai nostri amici i vari Tommy, Jeremy, Johnatan, Kate etc, che pur essendo nostri coetanei, avevano già conosciuto due continenti, e questo accresceva il loro fascino!
Scimmiottavamo le abitudini di questi nostri ospiti. Scoprimmo gli hot dogs, gli hamburger, le caramelle col buco, la coca cola, la marmellata di arachidi, il pop corn.
Eravamo estasiati dai frigoriferi enormi e bombati che vedevamo nelle loro cucine e da quel grosso camion dodge giallo , con la targa AFSE che portava i figli degli ufficiali alla scuola della Nato.

Ritornando alla Forrestal, ci abituammo alla sua presenza alterna ma nel complesso assidua nel golfo e a volte vedemmo anche partire ed atterrare gli aerei su questa gigantesca pista in mezzo al mare.
Era emozionante!!
La Forrestal alla fonda al Molo Beverello
La portaerei in navigazione di fronte a Mergellina

sabato 21 novembre 2015

Peppe 'o russo

L'ho conosciuto quando già non era più rosso di capelli, ma aveva la pelle chiara e le guance rubizze. Sedeva imponente nel centro della sua barca a remi.
Pantaloni beige al ginocchio, una canottiera chiara dalla quale spuntavano sugli omeri e in petto dei ciuffi di peli bianchi e rossastri. Aveva dei baffoni spessi e gonfi, e altrettanto spesse e gonfie erano le sue basette che venivano fuori da un fazzoletto annodato ai quattro angoli che, bagnato in mare e calzato, gli riparava la coccia dal sole. 
Peppe 'o russo fungeva da taxi del mare. Dagli yacht ancorati al Cenito accompagnava i navigatori a salutare gli amici che li attendevano nelle ville a mare, o viceversa, traghettava gli inquilini delle ville a visitare le barche, noleggiate ai circoli, che sostavano nella rada.
Spesso recuperava e trainava i ragazzini che si erano allontanati troppo con i canotti di gomma, sfuggendo agli sguardi vigili dei genitori. Tutto questo, logicamente, a remi.

Quando eravamo piccoli, mio fratello ed io , facevamo i bagni al Cenito.
Scendevamo le scale sotto allo chalet di Villa Gallotti e raggiungevamo il pezzetto di molo che si trova fuori alla grotta. Lì ci aspettava questo vecchio marinaio.
Con nostro padre salivamo sulla sua barca e lui ci traghettava sulla spiaggia del Cenito.
Nostra madre ci raggiungeva più tardi. 
Se Peppe 'o russo non era in zona, la vedevamo arrivare a nuoto, con una borsa in bilico sulla testa. In questa borsa portava dei panini per noi e della frutta. Nuotava piano piano, con la testa fuori dall'acqua, e stranamente riusciva a portare a destinazione i viveri ancora asciutti.

Nel frattempo, prima di venire a riprenderci, Peppe 'o russo aveva fatto tanti altri tragitti, anche da uno stabilimento all'altro. A volte si spingeva fino a Marechiaro.
Penso che partisse da Villa Martinelli o da Grotta Romana, perchè al tramonto spariva in quella direzione.

Quando tornavamo a casa facevamo le corse per farci la doccia in terrazza.
Chi arrivava per primo poteva usufruire dell'acqua calda che veniva fuori dalla cannola esposta a sole...

Lo scoglio del Cenito visto dalla baia





sabato 14 novembre 2015

La navetta

Negli anni '60, si aprì una voragine all'altezza dell'ingresso di Villa Ruffo su Via Posillipo, subito prima del cancello del Cenito.
I lavori non furono semplici, anche perchè il pezzo di strada crollata faceva parte di un ponte.
I disagi per i residenti furono notevoli, in quanto, per raggiungere il Capo bisognava fare il giro salendo per Rione Carelli e riscendendo per Cupa Angàra e viceversa.
Si ovviò a questo inconveniente facendo costruire dai Genieri un ponte in ferro e legno che potesse riavvicinare i due tronconi di strada. 
C'era però un problema: questa brillante soluzione provvisoria, avviata mentre i lavori stradali procedevano, poteva sopportare il peso delle auto, ma non quello degli autobus. E allora fu deciso che l'allora 240 fermasse a Piazza San Luigi e che una navetta più piccola e leggera completasse il tragitto fino al capolinea.
Ormai tutti noi che abitavamo più su della piazza, scendevamo dal bus e cambiavamo mezzo.

Un pomeriggio d'inverno, con una libecciata da mare forza sette, tra forti raffiche di vento e una pioggia battente che ci aveva accompagnato lungo tutto il percorso, l'autobus con i pochi viaggiatori si fermò, come sempre, a Piazza San Luigi.
Scendemmo tutti, tranne un vecchietto infreddolito che rimase rannicchiato nel suo seggiolino.

Un ragazzo gli disse : " 'O no', amma scennere!"
e lui : "Ma je aggia 'i 'o capo!" .
-"No, 'o no', mo amma piglià 'a navetta"
e lui, smarrito e spaventato, guardando il mare in tempesta oltre il parapetto di Villa Martinelli, mormorò in un soffio :"Ma pecchè, giuvinò, mo jammo pe' mmare?" ...
1959: uno dei “nuovissimi” ALFA 911 – Aerfer OCREN prende servizio sul 240 (coll. E. Bevere)



1961: il capolinea provvisorio di p.zza S. Luigi con filobus e navette (Foto Archivio Ruggieri)


Ringraziamo il sito www.clamfer.it per le foto 






sabato 7 novembre 2015

La "pusteggia" di Giggino il cantante

Nelle sere d'estate, dopo il lavoro e dopo cena, noi ragazzi ci incontravamo sul muretto di fronte al ristorante di Giuseppone a Mare. 
Quel locale era molto in voga e ben frequentato, sia per la buona cucina che per l'incomparabile visione del golfo illuminato che si godeva dai tavoli.
Anche l'accoglienza era cordiale, e veniva completata da un trio composto da Giggino il cantante e dai suoi accompagnatori. 
Giggino era moro, con i capelli lisci che portava pettinati con la fila e aderenti sulla testa; i suoi compagni suonavano uno la chitarra, l'altro il mandolino. 
A volte a questo concertino si aggiungeva un altro personaggio, un macchiettista sosia di Totò, del quale imitava le smorfie e i gesti, essendo effettivamente la sua controfigura nei suoi film.
Fra qualche lieve tintinnio di bicchieri, e qualche altrettanto lieve rumore di stoviglie, Giggino dava sfogo a tutto il suo repertorio. 
" 'Na sera 'e maggio, 'o marenariello, anema e core, mandulinata 'e Napule, canzone appassiunata e tante altre canzoni deliliziavano noi e gli avventori del ristorante.
Tra questi, nel tempo, riconoscemmo Rossellini e Ingrid Bergman, Dino de Laurentiis con Silvana Mangano e i loro bei bambini, Amedeo Nazzari e la moglie, alcuni giocatori del Napoli di allora, Silvana Pampanini, Giacomo Rondinella e lo stesso Totò (quello vero) con Franca Faldini.

Ritornando a casa in macchina, spesso aspettavo Giggino e compagni per dar loro un passaggio fino alla sovrastante Via Posillipo. Me ne erano molto grati. Una sera chiesi se nel loro repertorio ci fosse "Io, 'na chitarra e 'a luna" . Mi risposero che no, non faceva parte delle canzoni del loro repertorio.

Ma dopo un paio di settimane, mentre come al solito aspettavamo di ascoltare la musica, vidi Giggino alzare un braccio nella mia direzione, dicendo forte : "Signorina Maria, chesta è pe' vvuje!" .
E in mio onore attaccarono la canzone che mi piaceva e che avevano preparato apposta per me.
Commossa, confusa, arrossita dalla testa ai piedi, avrei voluto lanciarmi in acqua al di là del muretto, per evitare tutti quegli sguardi meravigliati rivolti alla mia persona. Eppure, nei miei ormai tanti anni di vita, quello è stato l'omaggio più sincero e gradito che io abbia mai ricevuto.

venerdì 9 ottobre 2015

Totonno ('o pazzo)

Rincresce che sia ricordato con questa apposizione, che volutamente ho scritto tra parentesi, che lo qualifica e lo squalifica al tempo stesso.
Il suo vero nome era Antonio Anastasio.
Non era una persona pericolosa, e non era assolutamente violento, ma aveva dei comportamenti anomali che incutevano paura a chi non lo conosceva. 
Abitava a Viale Costa. Era il padre di Luciano, che avevo conosciuto ragazzino quando vendeva le cozze a Giuseppone e che adesso, da grande, faceva il pescivendolo davanti alla farmacia. 
Totonno durante il periodo bellico fu catturato dai russi, in un'operazione che distrusse l'armata italiana nella quale era sergente. 
Evidentemente la guerra prima, la prigionia poi, con le privazioni, il freddo, la fame, la difficoltà della lingua, la lontananza dai suoi affetti, l'incertezza del futuro, l'avevano provato e sconvolto.
Quando stava calmo era un abitudinario. 
La mattina andava a bere il caffè dai guardiani del Mausoleo, poi si intratteneva un po' ai giardinetti di Piazza Salvatore di Giacomo. Aveva portato una sedia di vimini sotto l'albero vicino a Tonino il benzinaio, e lì passava il resto della sua giornata. Portava sempre dei cappelli favolosi, fatti con cartoni e avanzi vari; con i sacchetti della spazzatura si acconciava degli enormi papillon che indossava sulle sue camicie bianchissime.
Improvvisamente, però, lanciava degli urli sovrumani, minacciando di tagliare la testa a qualcuno; a volte incendiava i cassonetti, e ripeteva all'infinito "DOBRO KARACHEV".
Altra frase ricorrente era : " E nun capisce, e nun capisce, e nun 'o vo' capì! ... - Aeee... Aeee", oppure urlava "Tante 'e chelle cortellate!" .
Con una spugna passata nella cenere scriveva suoi muri parole in tedesco; e  in tedesco e in russo dava comandi con tono autoritario, retaggio probabilmente delle parole che dovevano averlo terrorizzato.
Con sguardo vigile e affettuoso il figlio Luciano lo teneva d'occhio, specie quando i bambini della Cimarosa uscivano rapidamente da scuola e attraversavano impauriti il marciapiede. 
Nei momenti in cui i ricordi si facevano forse più assillanti, Totonno si nascondeva tra le auto parcheggiate, pronto a saltare in mezzo alla strada, facendo prendere spaventi clamorosi agli automobilisti.
I posillipini che lo conoscevano, ne avevano una forma di affettuoso rispetto, pensando alle privazioni che doveva aver subito, alle violenze alle quali poteva aver assistito, alle paure ricorrenti, alla durezza della prigionia, a tutto quello che aveva portato all'alterazione e allo sconvolgimento della sua mente.
A volte urlava un nome di donna. Chiamava "Tatiana, Tatiana!" e iniziava a piangere a dirotto. Era una scena molto triste e imbarazzante.
Si raccontava che questa donna fosse stata fucilata davanti ai suoi occhi. Penso che chiunque, con i suoi trascorsi, avrebbe perso la ragione.
Ecco perchè mi pesa aggiungere al suo nome quell'apposizione con la quale tutti lo ricordano, ma che ritengo irrispettosa adesso che Totonno, finalmente libero dai fantasmi che lo tormentavano, può riposare in pace.




sabato 26 settembre 2015

Il signor Rigoli: piemontese o posillipino?



In questa carrellata di personaggi che hanno segnato un'epoca a Riva Fiorita, non si può  dimenticare il Signor Rigoli, che mi auguro legga e gradisca il mio ricordo.

Comparve un pomeriggio d'estate. In costume attraversò rapidamente la piazzetta, fece tre passi sulla spiaggia, si lanciò in acqua e con bracciate poderose raggiunse rapidamente la punta della scogliera.
Si ebbe l'impressione che sentisse il richiamo del mare così come lo avvertono le tartarughine appena venute fuori dal guscio. Ma altro che tartarughina! 
Era un uomo forte, muscoloso, con un fisico erculeo , dava l'impressione che avrebbe potuto stendere chiunque con tre dita. 
Si seppe poi che veniva dal nord, da Verbania, e che era stato trasferito a Napoli per lavoro. 
All'inizio era brusco, schivo; forse per timidezza, forse per diffidenza verso questo ambiente che sentiva ancora estraneo. Rispondeva a monosillabi; le sue più che delle risposte erano dei brontolii. Ci pensò la moglie, la signora Maria, con la sua affabilità, ad integrarsi subito in questa comunità nuova e ci pensarono anche i loro due gemellini, belli e biondi, che con la loro vivacità incantarono tutti. E così pian piano il signor Rigoli entrò alla grande a far parte dei personaggi di Riva Fiorita
Possedeva una vespa con la quale andava al lavoro. Ci saliva con un balzo; sembrava un cowboy che montava a cavallo. 
La signora Maria era una donna tranquilla, placida, paciosa, orgogliosa di suo marito e dei loro bei bambini. 
Lui, innamorato del mare, appena tornava a casa indossava maschera e costume e andava a pesca. Cominciò a conoscere tutte le chiane sulle quali raccogliere le cozze. Ne raccoglieva tante per cui quando nuotava si tirava dietro una barca nella quale man mano le riponeva. Arrivato a terra, le distribuiva, e anche per questo fece amicizia con tutti.
Poi si dedicò ai pesci. Penso che Torquato, indimenticabile, bravissimo sommozzatore dell'acquario, nonchè suo vicino di casa, possa avergli inizialmente indicato le tane, gli anfratti, le zone più pescose. Fatto certo è che dal Cenito a Pietra Salata, negli anni in cui il signor Rigoli pescava con bombole e muta, ci fu una decimazione della fauna ittica. E anche qui, nelle sue battute di pesca, al posto della boa segnasub si trascinava dietro un canotto-appoggio. 
Di una vitalità non comune, quasi ogni pomeriggio, prendeva una barca e si recava a Villa Lauro, alla sorgente dell'acqua minerale, che raccoglieva per la moglie alla quale piaceva molto. 
Ricordo quando risaliva dalla punta della scogliera, grondante di acqua, con la maschera sollevata sulla fronte, e il coltello nella fondina legata al polpaccio. Massiccio, muscoloso, forte, ma dall'indole bonaria, era l'idolo dei ragazzini che lo vedevano come un "gigante buono" e avrebbero voluto imitarne le gesta.
Il segnale che il signor Rigoli era in casa era rappresentato dalla sua muta stesa ad asciugare sul terrazzino, così come la bandiera che segnala che il capitano è a bordo.

Può andar fiero di aver lasciato un segno, dimostrando di aver apprezzato, con lo spirito giusto, l'atmosfera e l'incanto di Riva Fiorita.


Il signor Rigoli


Giuseppone a mare - Credits : bj albert

sabato 15 agosto 2015

Proggiolone, la primavera del mare!

Un mito.
Ebbe un'intuizione geniale e inventò il fast food a mare,
Negli anni '50 e fino agli anni '65, girava con la sua barca tra i motoscafi, gli otto metri, i dinghies, i sandolini che sostavano nella rada del Cenito. Aveva a bordo una ghiacciaia ed una grossa borsa di panini imbottiti. Aveva i capelli neri ricci, gli occhi azzurri e un sorriso simpatico. Con la sua voce forte urlava:

"Voi volete bere o volete mangiare?"
- "Che coraggio che c'avete, mi guardate e non me chiammate!"
- "Che coraggio che c'avete, mi vedete e non mi volete!"
- "Qua sta Proggiolone, la primavera del mare!"

Si era autodefinito Proggiolone perchè la sua specialità erano i panini con il proggiolone (il provolone). Diceva che evitava quelli con i salumi perchè facevano venire sete.
Ne aveva con i pomodori, con i peperoni, con le melenzane a funghetto, squisiti!.
Nella ghiacciaia aveva acqua, qualche coca cola, e caffè .
Girava da una barca all'altra e la sua voce forte che gridava "CHIMIVUOOOLE!!" si sentiva nelle ville a mare e fin sulla strada.
Fu soppiantato da Gennaro che raccontava di essere un suo parente e che gli subentrò, in quanto Proggiolone -che d'inverno faceva il bidello- si era infortunato ad una gamba, essendogli caduta addosso una lavagna.
Nel frattempo anche gli... avventori erano cambiati.
Molte più barche si fermavano al Cenito, molta più plastica al posto del legno, la passione per il mare lasciava il posto al "progresso" e agli status symbol.
Scomparsi i sandolini e gli otto metri, subentrarono i Boston whaler, con gli ampi prendisole che -pur essendo orribili- facevano tendenza.
Proggiolone aveva aperto la strada, con la sua cucina casareccia, Gennaro perfezionò l'offerta.
Innanzitutto la sua barca a motore gli permetteva di spostarsi più velocemente e agevolmente, poi aveva a bordo un frigorifero vero e proprio, con porzioni di parmigiana di melenzane, gattò di patate, arancini di riso, cotolette. La sua barca era rossa, con la scritta "COCA COLA" in bianco e sull'ombrellone che la riparava dal sole. Vendeva anche bibite ghiacciate e gelati.
Un anno Gennaro, da grande imprenditore, fece montare una pedana su palafitte, avanti alla spiaggia piccola di villa Peirce. La si raggiungeva a nuoto o in barca. Era una spaghetteria. 
Vi si mangiavano unicamente spaghetti ai frutti di mare. Una meraviglia!

Rincontrai Proggiolone dopo parecchi anni.
Immutato, se non nella capigliatura ormai bianca, ma sereno e nostalgico.
Parlammo a lungo, io felice di essere stata riconosciuta dopo tanti anni, lui contento di poter ricordare tempi lontani così diversi dagli attuali; tempi in cui bastava un panino mangiato in mezzo al mare per sorridere alla vita e sentirsi padroni del mondo.

 


mercoledì 12 agosto 2015

'Zi Peppe

Della famiglia Cafarelli, 'Zi Peppe, più anziano di Barbetta, era... l'armatore.
Possedeva cinque barche, quattro le affittava, una era sua personale. Erano barche a remi, semplici, da pescatore, un po' pesanti da governare ma stabili e sicure. Gli scafi avevano un colore particolare, di un azzurro tendente al grigio.
 'Zi Peppe le affittava a malincuore, dopo mille raccomandazioni:
- " Giuvino', ma 'a sapìte purta' ?"
- "M'arraccumanno!"
- "Si jate a Marechiaro, passate pe' ffora a Preta Salata, ca pe' ddinto stanno 'e cchiane!"

Trovava pace solo quando la sua... flotta rientrava.

Nell'attesa remava lento, in avanti, nella rada di Giuseppone, con le spalle alla prua, anche perchè a poppa, seduto, impettito e partecipe, c'era il suo cane. Uno di quei cagnolini come ce ne sono tanti, risultato di incroci di svariate razze accoppiatesi nel tempo. Era piccolo, bianco a macchie color caffelatte. 
L'intesa tra i due era perfetta. Da terra si vedeva che 'Zi Peppe gli parlava, come ad un vecchio amico, e il cane sembrava ascoltarlo e assecondarlo.
'Zi Peppe abitava con la moglie Zia Nannina, in una stanza unica con cucinotto. 
Quando apriva la porta finestra appariva una visione che era una gioia per gli occhi e per lo spirito. Ben centrato di fronte, il Vesuvio. A sinistra Napoli, a destra villa Volpicelli, davanti la scogliera, il piccolo porto, e le barche che rappresentavano tutta la sua ricchezza. Anzi, no. 
Era anche proprietario di una nassa che aveva affondato fuori agli scogli.
Una volta che catturò tre marvizzi, lui e Zia Nannina mi invitarono a cena e ancora ricordo il sapore dei pesci cotti sulla fornacella.
'Zi Peppe aveva i capelli bianchi e l'immancabile coppola blu.
Zia Nannina anche lei bianca, ma con gli occhi scuri ridenti e il sorriso sempre pronto.
Non avevavano avuto figli, e vivevano l'uno per l'altra.
Un brutto giorno Zia Nannina si alzò presto per fare il caffè, ma avendo per sbaglio lasciata aperta la manopola del gas la sera precedente, appena accese un fiammifero, tutta la stanza prese fuoco.
Con ustioni su tutto il corpo furono portati al Loreto Crispi.
Li andavo a trovare spesso. Sembrava che l'immediatezza delle cure potesse avere la meglio sulle bruciature.
Prendevo in giro 'Zi Nannina, le dicevo che con la pelle nuova nessuno l'avrebbe riconosciuta e l'avrebbero scambiata per una sedicenne e fra le bende imbevute che le ricoprivano il viso, gi occhi le sorridevano.
'Zi Peppe aveva la febbre forte, delirava, si agitava, diceva che qualcuno rubava i pesci dalla sua nassa.
Il medico non si spiegava perchè portasse ritmicamente i pugni chiusi, insieme, al petto, per poi lasciarli andare. 
Gli spiegai chi era, e che continuava a fare quello che aveva sempre fatto... remare.
Il medico, intenerito, cercò in tutti i modi di fronteggiare l'infezione, ma il fisico minuto di 'Zi Peppe non fu in grado di sopportare le cure.
Zia Nannina, più forte e un po' più giovane, dopo mesi e mesi di ospedale, riuscì a tornare a casa, e a sopravvivergli di qualche anno.
La vista di fronte casa di 'Zi Peppe e 'Zì Nannina

sabato 8 agosto 2015

'Zì Rafele

'Zi Rafele merita un discorso a parte.
'Zi Rafele non era un pescatore, era un marinaio.
Controllava le barche che gli venivano affidate nel porticciuolo di Riva Fiorita, toglieva l'acqua rimasta sotto i paglioli, le custodiva, traghettava i fortunati bagnanti che ne erano proprietari, aiutandoli a salire a bordo e a districarsi tra boe, gavitelli, parabordi, e cime , finchè non superavano la scogliera. Aveva una soluzione per ogni problema riguardante le uscite in mare.
Aveva requisito due cabine, sotto la terrazza, nelle quali c'era di tutto. Vi trovavi ancore, remi, taniche, spugne, strisce di cuoio, chiodi, viti, bocche di rancio, cime, sagole, pezzi di legno di ogni spessore, sega e seghetto, martello, avanzi di vernice.
Lavorava tutto il giorno, ungendo di grasso gli spezzoni di corda che andavano negli scalmi, scacciando i ragazzini che volevano salire sulle barche per tuffarsi, riavvolgendo cime e facendo piccole riparazioni. 
Era anziano, bassino, con pochi denti e i capelli bianchi, curvo come una virgola, ma con un'agilità da gatto. Infaticabile, non si riposava mai, se non la sera, quando aveva sistemato tutte le barche. Soltanto allora, quando il sole stava per scomparire, si concedeva finalmente una sosta e una birra.
Questi erano i suoi vizi: la birra, il vino e... le donne.
Ricordo che fu ricoverato al Fatebenefratelli per un malore, ma venne dimesso rapidamente per le intemperanti avances che dedicava alle infermiere.
Gli abbiamo voluto bene tutti, perchè pur volendo fare il burbero veniva tradito dall'innocenza dei suoi piccoli occhi che sembravano due pezzetti di cielo. Celesti come quel cielo nel quale adesso riposa meritatamente in pace.

venerdì 10 luglio 2015

Vincenzo Coppola


Era il giardiniere di villa Carradori.
Anima pura, incapace non solo di fare, ma anche solo di pensare, al male.
Era innamorato delle sue piante, dei fiori , della natura, degli alberi. 

Sposato con Giovanna, donnina sarda, furba, litigiosa e permalosa, non aveva avuto figli, e riversava tutto il suo amore nella sua professione. 
Parlava con le piante, gioiva della loro crescita sana, soffriva se si ammalavano. Alle spalle della villa, e nascosta alla vista, aveva destinato un'aiuola alle erbacce che estirpava e che non aveva il coraggio di buttare via. 
Lui e Giovanna erano anche custodi della villa, che era disabitata tutto l'anno tranne nei mesi estivi, e abitavano in una casetta piccolissima, immersa nel verde. 
Una scaletta esterna collegava la stanza da letto e il bagno che si trovavano a piano terra, con la camera da pranzo e la piccola cucina che invece erano al primo piano. 
Quando la villa fu venduta, Vincenzo e la moglie furono costretti a lasciare quel posto paradisiaco nel quale avevano vissuto tanti anni, e dopo essersi ammalati di malinconia, cominciarono ad accusare vari acciacchi, e se ne andarono così, l'una dietro l'altro .


La casina di Vincenzo Coppola in un dipinto inviata dal nipote Gianni Pompeo, che ringrazio



I Tripolini

Due fratelli. Gemelli, identici, da credere di vederci doppio. Piccoli, tarchiati, con i capelli a spazzola e le facce piene di rughe che ricordavano quei tappi da bottiglia scolpiti nel legno che si trovano in Alto Adige. Scendevano ogni mattina dal Casale, con le maniche delle camicie avvolte sui gomiti e i pantaloni avvolti al ginocchio. Ognuno di loro aveva uno di quei tini di legno col manico, e lo portava su una spalla. Li chiamavano " I Tripolini" perchè raccontavano di aver fatto ala guerra coloniale a Tripoli. Uno di loro si chiamava, forse, Giovanni; l'altro non saprei. Parlavano una lingua strana, tipo un dialetto sardo. Soltanto a tratti si captava qualche parola e si ricostruiva quello che volevano dire. Non davano fastidio a nessuno. Salivano a bordo della loro barca e pescavano sotto costa, tra gli scogli, dove avevano nasse e mummarelle. Quando sbarcavano, al tramonto, c'era sempre chi offriva loro una sigaretta o una birra. Uno di loro la prendeva, ma solo dopo essersi accertato che ce ne fosse una anche per l'altro fratello. E così anche per le sigarette. Ma, avendo un'età, e bevendo e fumando troppo spesso, un medico suggerì loro di eliminare almeno un vizio: o il fumo o il bere. E allora, sapete come la risolsero? Alternativamente uno beveva due birre e l'altro fumava due sigarette, salvo cambiare il mese successivo. La sera risalivano, piccoli , scalzi, con il loro scarso pescato, e tornavano alla loro casetta, al Casale.

Luigi, pescatore del Casale

Luigi scendeva a Giuseppone prima ancora che albeggiasse. Prendeva la sua barca quando ancora tutti dormivano e godeva nell'ascoltare il fruscìo che i remi facevano nell'incontrare l'acqua del mare ancora addormentato. Si allontanava parecchio da riva, remando con calma.
Tutte le ore che trascorreva, solo, nel silenzio, lo avevano fatto diventare un pensatore, un filosofo. 
Quando sbarcava, al tramonto, aveva sempre voglia di parlare e se trovava qualcuno disposto ad ascoltarlo, non lo mollava più. Per questo, in tanti lo scansavano. 
Portava con sussiego in testa i vecchi borsalino smessi di mio padre (che una volta erano stati di feltro grigio o tortora ed ora avevano un colore indefinibile) e sotto ci teneva i "ranci felloni" privati delle chele, per catturare i polipi.
Nel tempo ne ha presi tanti e noi, con la curiosità dei bambini, assistevamo al rito del morso in testa e dello sbattere quelle povere bestie sugli scogli. 
Però poi, Luigi ti stupiva quando ti raccontava delle sue impressioni all'alba, quando vedeva il sole spuntare da dietro al Vesuvio e tingere di rosa, viola, rosso, arancione , "tutta ll'aria adderèto 'a Muntagna", e la meraviglia di vedere il mare che cambiava colore, e le refole che a tratti lo increspavano, e le case nei vetri delle quali si specchiavano i primi raggi. 

E allora Luigi diceva: "Ma si sto je sulo mmiezo 'o mare e stanno ancora durmenno tutte quante, ma allora Ddìo 'sto spettacolo l'ha fatto sùlo pe' mme? Ma allora je so' impurtante, so' comme a Giulio Cesare!".
Povero, caro, Luigi ! Fu colpito da ischemia cerebrale. 
Lo trovarono steso sul fondo della barca alla deriva... E non lo vedemmo più.









Barbetta

Barbetta era un'istituzione di Giuseppone. 
Gran bell'uomo, alto, elegante nella figura, con uno sguardo magnetico e la dignità di un Abramo Lincoln. 
Portava sempre un vecchio cappello da marinaio con visiera, e aveva un incedere fiero. Osservava tutto. Di poche parole , ma sempre garbatissimo se veniva interpellato. 
Lo ricordo a prua di un motoscafo blu -di quelli enormi dei contrabbandieri- che era stato sequestrato dalla guardia di finanza e che rimase a lungo sulla piazzetta di Giuseppone
Lui, nel pomeriggio, saliva a bordo di questo motoscafo tirato a secco e si godeva l'ultimo raggio di sole che tramontava dietro le torri di villa Volpicelli
Dall'alto della sua postazione aveva il controllo di tutto quello che accadeva e quando qualcuno lo cercava, la moglie (Zia Emma) rispondeva : "O vedite llòco, sta 'mbarcato!" . 
Quando arrivavano i turisti lo fotografavano, perchè era veramente particolare, e lui si concedeva ai loro scatti con sufficienza, come se fosse stato normale che questi volessero un suo ricordo. 
D'altra parte, ogni volta che è stato girato un film a Giuseppone, Barbetta vi ha preso parte come comparsa.