venerdì 27 dicembre 2019

La Coccovaja di Piazza Salvatore di Giacomo

E' una piazza di Posillipo dedicata a quello che forse è stato il più grande tra i poeti e i cantori di Napoli, ma da tutti i locali è chiamata "i giardinetti".
E' un luogo ameno situato tra la solennità del Mausoleo e la chiesa di Bellavista.
Al centro della piazza c'è quella che una volta era una bella fontana, con un monolite centrale su cui poggia un catino dal quale dovrebbe sgorgare a cascata l'acqua.
Alla base del monolite c'erano quattro leoni (scomparsi!).
Nonostante questo l'antica Fontana degli Incanti o della Coccavaja, trasferita, restaurata e modificata nel tempo, continua ad avere un suo fascino.
Questo strano nome, che mi ha sempre fatto sorridere, le deriva da un'aquila che era stata apposta sul catino e che rappresentava lo stemma e e le armi di Carlo V.
I napoletani dissero che rassomigliava ad una civetta (cocovaja nel napoletano del '500) e così ormai viene chiamata.
Attorno alla base si rincorrono i bambinetti, mentre nei viali alberati gli anziani giocano ancora a bocce, o forniti di tavolini e sedioline, fanno delle interminabili partite a carte ,con gli spettatori -amici o perditempo- che alle loro spalle seguono e commentano il gioco.
All'esterno della piazza, sulla strada, vi sono delle panchine che possono rappresentare quella che in genere è una piazza del paese. Tutto il movimento si svolge lì.
Le macchine passano e con uno, due colpi di clacson, salutano le persone conosciute, che a loro volta rispondono con un cenno della mano.
Inoltre, la fermata dell'autobus posizionata proprio di fronte alle panchine, permette agli occupanti delle medesime di riconoscere e di incontrare amici e conoscenti, che, arrivati a destinazione, si soffermano volentieri a fare quattro chiacchiere.
In onore di Salvatore di Giacomo, parecchi anni fa, accanto all'unica panchina in pietra, sotto a un pino è stato creato un piccolo slargo con una lapide sulla quale sono incisi alcuni versi dell'intramontabile "Era de Maggio".
C'erano anche un grosso orcio e un geranio rosso.
Ricordo l'inaugurazione con i bambini della Cimarosa che cantavano la bella canzone...






giovedì 26 dicembre 2019

Il ragazzo della "fracetumma"

Inizialmente era Giannino, il Ricciulillo junior, a portarci la spesa dalla salumeria del padre, che si trovava ai giardinetti.
Mia madre raccoglieva le ordinazioni delle quattro famiglie della palazzina, e telefonava a nome di tutti perché solo noi, allora, possedevamo l'apparecchio telefonico.
Giannino arrivava su un'ape sgangherata e rumorosa, abbordando in velocità le curve del viale. 
Sempre sorridente, con gli occhi vivacissimi, prendeva bonariamente in giro tutti, e se ne andava cantando.
Se tardava a portare la spesa noi scendevamo a mare.
Mamma metteva la chiave nella toppa e gli lasciava i soldi e la regalìa sul tavolo della cucina.
Lui entrava, e se c'era roba deperibile la riponeva nella ghiacciaia.
Successivamente, per un periodo si alternarono due ragazzi a consegnare la spesa, ma questi, invece, venivano a piedi con una grande cesta sotto il braccio. 
Si chiamavano entrambi Tonino, e uno dei due era parente di Giannino.

Arrivò poi il ragazzo della fracetumma.
Era un bel ragazzotto, sui 14-15 anni.
Alto, atletico, con grandi occhi scuri, ma ...nato stanco.
Camminava lento, dinoccolato. 
Scendeva per il viale soffermandosi mille volte a raccogliere i pinoli, a guardare le farfalle, ad accarezzare i gatti. E quando gli si diceva :
" Ma quanto tempo ci hai messo a venire? Che è successo?" -rispondeva- "Signò, io oggi me sento 'na fracitumma 'ncuollo ca faccio fatica a me movere!".
Questo accadeva quotidianamente.
Mamma, pensando che avesse fame, gli preparava degli sfilatini imbottiti con la frittata, con le melanzane, con mozzarella e pomodori.
E anche questi, molto graditi, venivano addentati con altrettanta flemma e lentezza.
A parte questa fracitumma, era un ragazzo carino, gentile, che si faceva voler bene, e pur di fargli guadagnare qualcosa, mia madre gli propose di pulire le scale della palazzina.
Si trattava di spazzare e lavare gli scalini di cinque rampe e di spolverare la ringhiera.
Accettò di malavoglia. Fece un lavoro accurato, ma impiegò due giorni!
Quando gli fu proposto di occuparsene ancora, lui con un sorrido disarmante e dolcissimo rispose: "No grazie signò, mi servivano i soldi per un cappotto nuovo e adesso ce li ho".
Lo ricordo con simpatia.



martedì 12 novembre 2019

'Zì Considera

Giovannina era una donna piccola piccola, avanti con gli anni.
Aveva i capelli bianchi raccolti sulla nuca, trattenuti da due forcine di osso, gli occhi neri ancora vivacissimi e l'espressione impertinente di chi ha capito come si sta al mondo.
Si era sposata molto giovane, ma il marito muratore era precipitato da un'impalcatura, lasciandola sola a crescere quattro figli.
Lei con la forza della disperazione si adattava a fare qualsiasi lavoro che potesse darle la possibilità di sopravvivere e di dare da mangiare ai suoi bambini.
Pulendo le scale dei palazzi, lavando la biancheria nelle case signorili, facendo piccole commissioni per le persone anziane, era riuscita a portare avanti i suoi ragazzi che, ormai cresciuti, si erano trasferiti al nord -lei diceva Milano, perchè per una persona del sud il nord è Milano- e lavoravano lì.
Ogni tanto uno di loro le mandava una cartolina, e lei correva incontro a Tonino il portalettere che l'aveva chiamata da sotto al balcone per consegnargliela e la mostrava trionfante a tutti i vicini.
Dei quattro figli, uno era marittimo e viveva ad Ancona, uno era pizzaiuolo e si era trasferito a Rimini, altri due lavoravano a Parma in un salumificio.
inizialmente, ora l'uno, ora l'altro, le avevano proposto di trasferirsi presso uno di loro, ma lei intuiva che l'offerta tanto veniva fatta in quanto c'era la certezza che sarebbe stata rifiutata.
In effetti, lei era nata ai quartieri Spagnoli, lì era cresciuta e si era sposata, e non concepiva altro luogo nel quale potesse vivere.
Adesso era anziana e stanca, si era trasferita alla Concordia, nella zona alta dei Quartieri, dove pagava una pigione inferiore e si era circondata di persone che le volevano bene.

Era troppo avanti con gli anni per fare i lavori che in gioventù le avevano consentito di crescere i suoi figli, e doveva assolutamente trovare un introito per sopravvivere, senza gravare sulle spalle dei suoi ragazzi.
Era una donna saggia alla quale tutti si rivolgevano per un consiglio, per uno sfogo, per avere una parola buona.
E allora, con un'inventiva tutta napoletana, pensò di scrivere fuori al suo basso un cartello che recitava: 
" 'Zì Considera. Raccontatele i vostri dispiaceri e i vostri guai. Lei vi ascolta e vi consiglierà."

Ebbe successo.
Queste strane "sedute di analisi" costavano molto poco. 
Negli anni '70 la tariffa di mezz'ora era di 50 lire.

Chi non aveva soldi pagava con due uova, una tazza di brodo, un piatto di minestra, qualche frutto, un'offerta a piacere.
In tanti si recavano da lei trovando conforto dalle parole di incoraggiamento che venivano elargite con un sorriso. 
Mai nome fu più appropriato, 'Zì Considera.

Una stupenda foto di Piergiorgio Branzi nei vicoli di Napoli

Una stupenda foto di Piergiorgio Branzi nei vicoli di Napoli

sabato 28 settembre 2019

Altri ricordi sulla Forrestal

Ebbi la fortuna di visitarla.
A Riva Fiorita vennero ad abitare degli ufficiali della nostra aviazione in forza alla NATO.
Facemmo rapidamente amicizia con i loro figli -tutti più o meno nostri coetanei- e li seguimmo quando le loro famiglie vennero invitate a bordo. Eravamo una dozzina di ragazzini sui 12/13 anni.
Eccitati e un po' intimiditi ci imbarcammo al porto su uno di quei mezzi da sbarco che rivedemmo poi nei film americani.
Tutti in piedi su quello che sembrava un enorme scatolone bianco, scoperto e con una paratìa più alta da un lato che all'attracco si abbassava trasformandosi in una passerella.
Fummo accolti a bordo da marinai palestrati e giganteschi, alcuni anche di colore, che sorridendo ci stringevano la mano e con un amichevole scappellotto tra un "Hello!" e un "Welcome!" ci facevano entrare in questa portaerei che sembrava un'isola, tanto era alta sul livello del mare.
Ricordo gli aerei e gli elicotteri fissati al suolo con degli enormi cavi d'acciaio e una pista d'atterraggio lunghissima.
Un ufficiale ci raccontava come avvenivano le manovre, ci parlava della velocità degli aerei, della preparazione dei piloti.
Poi ci riunì tutti vicini, e improvvisamente il ponte di volo fu "inghiottito" all'interno della portaerei e avemmo tutti l'impressione di inabissarci.
Con gli occhi sgranati dalla meraviglia ci rendemmo conto che quello era un ascensore.
Ed era gigantesco!
La parte sottostante nella quale ci ritrovammo ci parve una città, brulicante di persone indaffarate.
Vedemmo un campo da basket occupato dai marines che giocavano allegramente, poi raggiungemmo il refettorio dove inorridimmo nel vedere altri marinai che mangiavano delle enormi bistecche spalmandole abbondantemente di marmellata di ciliegie.
Ancora più avanti raggiungemmo lo store -caffè, cacao, biscotti, barattoli di legumi, carne in scatola, zucchero, latte evaporato o condensato, crackers, frutta eccetera, insieme a prodotti per l'igiene personale (saponi, lamette, rasoi, dentifrici, biancheria)- erano riposti nelle loro confezioni coloratissime e ben allineati sugli scaffali.
Anche quello fu una novità per noi.
Allora in Italia nessuno di noi aveva ancora idea dei supermercati.
Tornammo quindi a casa ansiosi di raccontare tutto quello che avevamo visto e ci addormentammo ancora increduli.







domenica 22 settembre 2019

La Tropèa

Aspettavamo la Tropèa.
Dopo tanto sole, tanto caldo, tanta arsura, si desiderava una "rottura dei tempi", anche se solo temporanea.
Le piante fiaccate, sofferenti, anemiche, cercavano di resistere nel terreno riarso, che si spaccava in più punti.
Da cento giorni ed oltre il sole implacabile bombardava la terra, e tutti speravano che la clemenza della natura portasse un po' di ristoro.
E la tropèa arrivava.
Fra la fine di agosto e la prima quindicina di settembre, improvvisamente, ad ovest, una luce abbagliante all'orizzonte separava il mare divenuto grigio acciaio da un cielo cupo, nel quale una enorme nuvola avanzava srotolandosi come un tappeto, coprendo rapidamente tutto il golfo.
La terra e il mare davano l'impressione di inspirare -per un attimo intensamente-, in attesa di un brontolìo di tuoni, prima lontani, e poi vicinissimi, mentre lampi rapidissimi fendevano nubi gonfie d'acqua.
La pioggia arrivava a goccioloni violenti e caldi, e per noi bambini era una festa.
Questo sconvolgimento meteorologico, splendido da vedere, durava solo pochi minuti.
 L'aria si rinfrescava appena, ma il calore che emanava dal terreno quasi annullava quest'effetto.
Il segnale che la tropèa era terminata era dato dall'arcobaleno, che abbracciava il golfo e si specchiava nelle pozzanghere.


domenica 14 luglio 2019

La Chiesa di Bellavista

Piccola, raccolta, luminosissima perchè esposta completamente a mezzogiorno, incastonata tra due giardini al pianterreno del palazzo che la ospita, è la chiesa dei posillipini del Rione Spinelli, delle ville Gallotti, Caflish e Rivalta, degli abitanti della discesa di Giuseppone e di via Santo Strato, di villa Kernot, del Parco Primavera e Parco le Rondini.
In questa chiesetta dedicata a un'esile madonnina stilizzata che poggia sull'altare, tutti hanno ricevuto almeno un sacramento, dal battesimo, alla prima comunione, al matrimonio.
Per la messa, richiamati dalla campana festevole e petulante, i fedeli si incontrano si salutano, si sorridono.
Ci si conosce tutti.
La capienza all'interno è ridotta. 
Chi arriva prima prende posto, gli altri -dopo essere entrati per un fugace segno di croce- aspettano fuori, inebriandosi della visione della campagna che, essendo miracolosamente sfuggita alla speculazione edilizia, ricorda il luogo di delizie che doveva essere la Posillipo di una volta. Oltre la campagna si intravedono i giardini di villa Emma e di villa Rosebery, e poi il mare, i vaporetti e Capri.

Affacciarsi alla ringhiera di fronte alla chiesa è un inno alla vita; d'altra parte la chiesa non a caso si chiama Santa Maria di Bellavista.
Quando ero ragazzina, in estate, c'erano dei rituali da seguire.
Dopo la messa, si comperava il giornale, la frutta fresca da Gennaro Russo, e la carne.
Non si vedeva l'ora di tornare a casa, cambiarsi, e andare a mare.
In inverno la visione dalla ringhiera cambia: diversa ma sempre bellissima, forse ancora più affascinante, con il mare grigio e agitato, i cavalloni bianchi, il vento che fa turbinare foglie e aghi di pino, e l'odore forte del mare che arriva fin sulla strada.
Ricordo ancora, probabilmente negli anni '70, che quando la chiesa chiudeva, spesso sugli scalini sedeva Totonno, che simulava una improbabile partita a carte con un immaginario compagno, che veniva puntualmente ripreso, anche in malo modo, per le sue giocate azzardate.

Quando, come purtroppo accade, c'è un evento estremo, la partecipazione è corale.

La funzione si svolge regolarmente all'interno della chiesa, ma gli amici e conoscenti che rimangono fuori hanno modo di ricordare la persona scomparsa, parlandone e ricordandone abitudini, aneddoti, amicizia, generosità e atti di coraggio, e così la tristezza si trasforma in una dolce nostalgia, spesso condita da sorrisi, che attenuano il dolore della perdita.

Vesuvio visto dalla Chiesa di  Santa Maria di Bellavista

Penisola sorrentina e Capri - visuale dalla chiesa di Bellavista

Santa Maria di Bellavista - facciata attuale

La  chiesa di Santa Maria di Bellavista - Foto di Pietro Scolorato

lunedì 1 aprile 2019

Chiuvillo

Si chiamava Antonio Corsica, ma per noi tutti è sempre stato "Chiuvillo".
Così lo aveva ribattezzato la madre Mariella, vedendolo crescere magro e sottile come un chiodo.
Era la prima persona che si incontrava scendendo a Giuseppone.
Alla fine della strada si vedeva la torre di Villa Volpicelli, si svoltava l'angolo, e in primo piano, davanti al golfo, riconoscevi subito Chiovillo.
Biondo, di carnagione chiara, sempre curatissimo nella persona, composto e distinto, contemplava il mare e sembrava un turista inglese capitato a Giuseppone per caso.
Ti salutava e rispondeva a tono alle tue domande, ma avevi sempre l'impressione di averlo distolto da qualche suo pensiero.
La sua vita si è svolta tra il cancello di Villa Marino e la scogliera di Giuseppone.
Quei cento metri scarsi gli appartenevano di diritto!

Aveva raccolto sulla spiaggia di Riva Fiorita un gabbiano con un'ala spezzata.
Lo aveva portato a casa, lo nutriva con le alici, e gli aveva costruito una specie di stia che teneva sul ballatoio avanti alla porta della sua abitazione, e tutti i bambini andavano a vederlo.
Il povero gabbiano, ridotto ormai a un'anatra, quando a volte era lasciato libero, seguiva Chiuvillo come un cagnolino, camminandogli dietro con le sue zampe palmate.

L'abitudine a vivere nella natura, scrutando il mare  -imparando a riconoscere i segnali che anticipano i temporali, le mareggiate, l'avvento dei fulmini- affina lo spirito di chi osserva con occhi ormai esperti e cuore puro di bambino che ancora si entusiasma e si meraviglia.
Questo era Chiuvillo.
Fu tra i primi ad usufruire del sussidio di disoccupato organizzato e partecipava a tutte le manifestazioni.
Sapeva che avrebbe dovuto trovarsi un lavoro, e veniva bonariamente preso in giro: 
"Chiuvillo potrà lavorare solo se gli metteranno una scrivania sulla scogliera" - dicevano tutti.
Invece, a sorpresa, fu chiamato all'Istituto Nautico per dare una mano ad esporre i modelli di nave per il museo, per spostare le vetrine, e per altre piccole incombenze.
Questo doveva essere un incarico a tempo, ma Chiuvillo fu così bravo, puntuale, affidabile, corretto, coscienzioso, che la presidenza della scuola gli propose l'assunzione. Lui, rifiutò cortesemente.
Gli era bastato avere il riconoscimento per il lavoro che aveva svolto e la dimostrazione che, volendo, sapeva svolgere egregiamente il suo compito.
Ritornò a Giuseppone, a catturare e a vendere i polipi come aveva sempre fatto, a scrutare il cielo e il mare finchè un male inesorabile non lo ha portato via insieme alle sue fantasticherìe, facendo scomparire un altro indimenticabile personaggio della Posillipo di una volta.