venerdì 10 luglio 2015

Vincenzo Coppola


Era il giardiniere di villa Carradori.
Anima pura, incapace non solo di fare, ma anche solo di pensare, al male.
Era innamorato delle sue piante, dei fiori , della natura, degli alberi. 

Sposato con Giovanna, donnina sarda, furba, litigiosa e permalosa, non aveva avuto figli, e riversava tutto il suo amore nella sua professione. 
Parlava con le piante, gioiva della loro crescita sana, soffriva se si ammalavano. Alle spalle della villa, e nascosta alla vista, aveva destinato un'aiuola alle erbacce che estirpava e che non aveva il coraggio di buttare via. 
Lui e Giovanna erano anche custodi della villa, che era disabitata tutto l'anno tranne nei mesi estivi, e abitavano in una casetta piccolissima, immersa nel verde. 
Una scaletta esterna collegava la stanza da letto e il bagno che si trovavano a piano terra, con la camera da pranzo e la piccola cucina che invece erano al primo piano. 
Quando la villa fu venduta, Vincenzo e la moglie furono costretti a lasciare quel posto paradisiaco nel quale avevano vissuto tanti anni, e dopo essersi ammalati di malinconia, cominciarono ad accusare vari acciacchi, e se ne andarono così, l'una dietro l'altro .


La casina di Vincenzo Coppola in un dipinto inviata dal nipote Gianni Pompeo, che ringrazio



I Tripolini

Due fratelli. Gemelli, identici, da credere di vederci doppio. Piccoli, tarchiati, con i capelli a spazzola e le facce piene di rughe che ricordavano quei tappi da bottiglia scolpiti nel legno che si trovano in Alto Adige. Scendevano ogni mattina dal Casale, con le maniche delle camicie avvolte sui gomiti e i pantaloni avvolti al ginocchio. Ognuno di loro aveva uno di quei tini di legno col manico, e lo portava su una spalla. Li chiamavano " I Tripolini" perchè raccontavano di aver fatto ala guerra coloniale a Tripoli. Uno di loro si chiamava, forse, Giovanni; l'altro non saprei. Parlavano una lingua strana, tipo un dialetto sardo. Soltanto a tratti si captava qualche parola e si ricostruiva quello che volevano dire. Non davano fastidio a nessuno. Salivano a bordo della loro barca e pescavano sotto costa, tra gli scogli, dove avevano nasse e mummarelle. Quando sbarcavano, al tramonto, c'era sempre chi offriva loro una sigaretta o una birra. Uno di loro la prendeva, ma solo dopo essersi accertato che ce ne fosse una anche per l'altro fratello. E così anche per le sigarette. Ma, avendo un'età, e bevendo e fumando troppo spesso, un medico suggerì loro di eliminare almeno un vizio: o il fumo o il bere. E allora, sapete come la risolsero? Alternativamente uno beveva due birre e l'altro fumava due sigarette, salvo cambiare il mese successivo. La sera risalivano, piccoli , scalzi, con il loro scarso pescato, e tornavano alla loro casetta, al Casale.

Luigi, pescatore del Casale

Luigi scendeva a Giuseppone prima ancora che albeggiasse. Prendeva la sua barca quando ancora tutti dormivano e godeva nell'ascoltare il fruscìo che i remi facevano nell'incontrare l'acqua del mare ancora addormentato. Si allontanava parecchio da riva, remando con calma.
Tutte le ore che trascorreva, solo, nel silenzio, lo avevano fatto diventare un pensatore, un filosofo. 
Quando sbarcava, al tramonto, aveva sempre voglia di parlare e se trovava qualcuno disposto ad ascoltarlo, non lo mollava più. Per questo, in tanti lo scansavano. 
Portava con sussiego in testa i vecchi borsalino smessi di mio padre (che una volta erano stati di feltro grigio o tortora ed ora avevano un colore indefinibile) e sotto ci teneva i "ranci felloni" privati delle chele, per catturare i polipi.
Nel tempo ne ha presi tanti e noi, con la curiosità dei bambini, assistevamo al rito del morso in testa e dello sbattere quelle povere bestie sugli scogli. 
Però poi, Luigi ti stupiva quando ti raccontava delle sue impressioni all'alba, quando vedeva il sole spuntare da dietro al Vesuvio e tingere di rosa, viola, rosso, arancione , "tutta ll'aria adderèto 'a Muntagna", e la meraviglia di vedere il mare che cambiava colore, e le refole che a tratti lo increspavano, e le case nei vetri delle quali si specchiavano i primi raggi. 

E allora Luigi diceva: "Ma si sto je sulo mmiezo 'o mare e stanno ancora durmenno tutte quante, ma allora Ddìo 'sto spettacolo l'ha fatto sùlo pe' mme? Ma allora je so' impurtante, so' comme a Giulio Cesare!".
Povero, caro, Luigi ! Fu colpito da ischemia cerebrale. 
Lo trovarono steso sul fondo della barca alla deriva... E non lo vedemmo più.









Barbetta

Barbetta era un'istituzione di Giuseppone. 
Gran bell'uomo, alto, elegante nella figura, con uno sguardo magnetico e la dignità di un Abramo Lincoln. 
Portava sempre un vecchio cappello da marinaio con visiera, e aveva un incedere fiero. Osservava tutto. Di poche parole , ma sempre garbatissimo se veniva interpellato. 
Lo ricordo a prua di un motoscafo blu -di quelli enormi dei contrabbandieri- che era stato sequestrato dalla guardia di finanza e che rimase a lungo sulla piazzetta di Giuseppone
Lui, nel pomeriggio, saliva a bordo di questo motoscafo tirato a secco e si godeva l'ultimo raggio di sole che tramontava dietro le torri di villa Volpicelli
Dall'alto della sua postazione aveva il controllo di tutto quello che accadeva e quando qualcuno lo cercava, la moglie (Zia Emma) rispondeva : "O vedite llòco, sta 'mbarcato!" . 
Quando arrivavano i turisti lo fotografavano, perchè era veramente particolare, e lui si concedeva ai loro scatti con sufficienza, come se fosse stato normale che questi volessero un suo ricordo. 
D'altra parte, ogni volta che è stato girato un film a Giuseppone, Barbetta vi ha preso parte come comparsa.