sabato 12 novembre 2016

Mio padre

A distanza di 50 anni dalla scomparsa di mio padre, ho sentito il bisogno di scrivere qualcosa ricordando la mia infanzia, con lui, nella nostra Posillipo di allora.

Quando eravamo bambini, mio fratello ed io, andavamo incontro a nostro padre che ritornava da lavoro in città.
Salivamo il viale, arrivavamo alla strada e sedevamo in attesa su due pilastrini di pietra che ancora esistono, fuori al cancello della villa. Parlo di tantissimi anni fa, addirittura prima degli anni '50. Il filobus che ci avrebbe riportato nostro padre era l'allora numero 40.
Era tale il silenzio della strada che lo sentivamo arrivare già da piazza S. Luigi; inoltre ci regolavamo scrutando il movimento dei cavi ai quali venivano attaccati i trolley.
Le macchine erano rarissime: in un'ora nelle due direzioni se ne potevano contare tre o quattro.
Papà arrivava, alto, snello, sorridente e distinto.
Fingeva di essere sorpreso di vederci ma in realtà ci aveva già adocchiato dal finestrino.
Era contento, era affettuoso, era una persona semplice, innamorato della vita e della sua famiglia.
Riscendevamo il viale insieme. Io mano a mano con lui gli saltellavo al fianco, cercando di tenere il loro passo, mentre lui si informava di noi, della nostra giornata. dei nostri amici.
Dopo cena, sedevamo in terrazza al fresco, sotto gli alberi, e noi ragazzini eravamo adibiti al trasporto da casa delle sedioline da regista che ospitavano man mano gli amici dei nostri genitori e i nostri vicini di casa. Nelle sere di luna piena, invece, tiravamo fuori le sedie a sdraio, per meglio apprezzare la scia argentata sul mare, dopo aver seguito il suo cammino tra gli alberi.

Soltanto il venerdì era sacro. Dovevamo tacere tutti, perchè alla radio trasmettevano la prosa. 
Papà aveva recitato da giovane in una filodrammatica con buon successo di pubblico e di critica. Segnalato a Pirandello, gli si presentò per un'audizione. Fu scelto. Sarebbe dovuto partire dopo un paio di giorni per recitare nella compagnia con Marta Abba. Tornò a casa eccitatissimo ma i suoi sogni di gloria si infransero contro il divieto assoluto di mio nonno, che lo voleva laureato come i suoi fratelli, e che mai avrebbe accettato di avere un figlio... artista.
Penso che la rinuncia dovette pesargli molto (ma allora si ubbidiva ai genitori).
Si consolava ascoltando la prosa alla radio. Molte commedie gli erano note e ne conosceva le battute a memoria.

Alla domenica, papà e io andavamo a messa. A volte alla chiesa di Bellavista, spesso al Mausoleo.
Mi piaceva la solennità di quel sacrario. Leggevo i nomi di quei caduti: mio padre, commosso, mi indicava quelli che aveva conosciuto. Per raggiungere la chiesa, oltre alla scalinata centrale, ci sono due viali laterali paralleli. Io ne imboccavo uno e mio padre l'altro e una volta arrivati su, fingevamo di incontrarci per caso. Per i miei allora pochissimi anni, questo camminare da sola lungo questa strada che mi sembrava grandissima, aveva il senso della libertà.
Altre volte andavamo nella cappellina della villa Pica, salivamo la scaletta coperta di plumbàgo turchese e la trovavamo alla nostra destra.
Era una chiesa piccolissima. Per raggiungerla c'era un cancelletto che racchiudeva uno spiazzo sterrato con tanti vasi vuoti di terracotta di varie dimensioni. Evidentemente fungeva da vivaio per qualche giardiniere.

Dopo la messa ci allungavamo alla salumeria del Ricciulillo, (il Cotugno capostipite) che allora aveva la bottega dove adesso c'è il Bar Rivalta. L'attuale palazzo infatti, non c'era ancora.
Veramente, più che una bottega quella del Ricciulillo era una grotta. Lì compravamo il latte e il pane, e ordinavamo la spesa. Un'altra tappa la facevamo dal padre di Agostino Russo. Compravamo la frutta e i fichi che venivano raccolti nella sua terra, sotto la strada, di fronte alla chiesa di Bellavista. Poi papà comprava il giornale per sè e i fiori per mamma (ginestre e margherite gialle) e tornavamo a casa.

Indossavamo rapidamente i costumi. Papà ne aveva uno blu di lana, con la cintura bianca; mia madre aveva un costume nero intero, e anche noi ragazzini portavamo queste mutandine di lana che, impregnandosi con l'acqua di mare e il sale, diventavano dei bermuda pesantissimi.

In genere, Peppe 'o Russo ci accompagnava con la barca verso Villa Martinelli.
Ricordo che davanti a Villa Carunchio c'erano due colonne ammalorate di mattoni, dai quali si tuffavano i bagnanti. Li guardavo estasiata. Non vedevo l'ora di "farmi grande" per poterli emulare, ma non ci riuscii mai, perchè il mare le spazzò via da un anno all'altro. Altre volte affittavamo la barca e ci recavamo sull'altro versante.La nostra meta erano le lunghe gialle chiane di tufo di villa Maisto.

C'era una grotta, subito prima degli scogli, all'interno della quale sgorgava un'acqua sorgiva leggera, delicata e dolce. La si raccoglieva immergendo appena sotto la superficie del mare una bottiglia vuota tappata con un dito; si intercettava la vena, che quasi affiorava, e si attendeva che l'acqua la riempisse.
Per noi ragazzini era un divertimento, ma anche tanti adulti raggiungevano con le barche la sorgente. Accanto alla grotta (ormai murata!), c'era una bella spiaggia di sabbia doppia, attualmente ignobilmente ricoperta per farne una banchina solarium ad esclusivo uso e consumo dei "nuovi" inquilini del parco Sud Italia, che purtroppo ha cementificato anche quella che era una campagna selvaggia e meravigliosa.

Altre volte ci fermavamo a Villa Rosebery
La spiaggia allora era accessibile, e si tolleravano anche gli ombrelloni. Sul muraglione di fondo c'erano le garitte, e due marinai erano sempre di guardia. Io sapevo già nuotare, ma non mi spingevo mai fin sotto villa Emma perchè tutta quell'abbondanza di alghe che non permettevano di vedere il fondale, mi incuteva un certo timore.

Tornavamo a casa stanchi, abbronzati e felici.
Ci attendeva una doccia all'aperto, con la cannola posizionata sotto una quercia.
Papà, poverino, era l'ultimo e gli toccava l'acqua più fredda.
Nel pomeriggio, ogni tanto, facevamo una passeggiata avendo come destinazione la gelateria dei Nicolai a Piazza San Luigi, successivamente sostituita dai Bilancione. La specialità del signor Pietro, che forse qualcuno ricorda, era la Giardiniera: un gelato alla crema con pezzetti di frutta candita di tutti i colori.

Queste erano le nostre estati di bambini, meravigliose e semplici.
Nel nostro viale avevamo tanti amici, con i quali giocavamo a guardie e ladri, o facevamo le corse con i carruocioli o riscendevamo nel pomeriggio sugli scogli a pescare.
Ma il clou delle nostre estati si raggiungeva con la festa di Piedigrotta. Tutti noi bambini ci mobilitavamo per ritagliare a mo' di gran pavese tante bandierine di carta velina colorata e le attaccavamo con la colla fatta di acqua e farina sui fili di spago che venivano tesi da un albero all'altro. Mio fratello ed io contribuivamo anche con dei palloncini di carta di varie forme, che chiusi erano schiacciati e che si aprivano a fisarmonica; all'interno si metteva un lumino.
Li aveva portati mio nonno dal Giappone, e allora rappresentavano una rarità. Le madri partecipavano alla festa con dolciumi e pizzette; specie la signora Brescia, autrice di brioches leggendarie.

La fine di Settembre si avvicinava rapidamente e con essa purtroppo anche la fine di questa vita brada. Allora, ci aspettava il rientro a scuola e dovevamo lasciare il paradiso di Posillipo per la casa dei nonni, in città.
Questa era una casa molto grande, severa, con tendaggi e tappeti, dove convivevano in serenità quattro generazioni.
Ma questa è un'altra storia...