domenica 25 dicembre 2016

Riaffiorano i ricordi...

La mattina presto, preceduto dal rumore di un clacson rauco che ascoltavamo mentre affrontava le varie curve del viale, scendeva giù alla villa il campioncino rosso del panettiere Moccia che veniva da piazza San Luigi, dove adesso c'è l'Elettroforno
Si fermava sotto al ponte che collega l'ingresso superiore della palazzina con la rampa sottostante e, circondato da mamme e bambini, apriva i due battenti del portellone posteriore, lasciando intravvedere pane, brioche, taralli e biscotti ancora caldi e profumatissimi.
Mamma comperava il pane marsigliese per papà, dei panini all'olio per noi e se eravamo stati buoni delle brioscine fatte a treccia con l'uva passa e lo zucchero bruciacchiato in superficie. 
Sarà stata la fame, ma noi bambini di allora, quando ci siamo rivisti le abbiamo ricordate ancora!

Poco dopo sopraggiungeva un'ape che portava delle barre di ghiaccio avvolte nella juta. 
Veniva sempre da San Luigi, appunto dalla fabbrica di ghiaccio. Questo veniva venduto a peso, rompendolo con un punteruolo. 
Lo compravamo tutti perchè serviva per tenere i cibi in fresco nelle ghiacciaie (antesignane dei frigoriferi) .
Noi lo spezzettavamo ancora, a casa, per raffreddare a tavola l'acqua nelle brocche.
Quest'ape spariva, poi, lasciando una lunga scia di acqua che vedevamo gocciolare tra le ruote.

Il martedì compariva Carminiello.
Personaggio di età indefinita, dai capelli a spazzola, una barba incolta e brizzolata.
Vendeva le uova che portava in un grosso paniere e che conservava nella paglia. Sulle spalle "indossava" dei serti di aglio, dei rami secchi di origano e rosmarino. 
Aveva addosso, nonostante l'origano e il rosmarino, uno sgradevole odore di pollaio e per questo tutti pensavano che dormisse con le sue galline.
Era un brav'uomo, ma questa sua peculiarità affrettava la compravendita.

Angelina, invece, veniva da Agerola, due volte alla settimana, accompagnata in macchina dal figlio che parlava poco -sopraffatto dalla madre- e che aveva il solo compito di chauffeur.
Vendeva un fiordilatte strepitoso, buonissimo! 
Era una donna svelta, rapidissima a fare i conti, furba e pettegola. Penso che andasse in tutte le ville, perchè tra le nostre conoscenze era nota a tutti.
Portava imbasciate tra una casa e l'altra, sapeva tutto di tutti e se le veniva dato spago raccontava pettegolezzi inediti.

Da mare, invece, salivano Luigi il pescatore del Casale e Umberto, che era l'ultimo fratello dei Cafarelli
Quasi tutti i giorni, o l'uno, o l'altro o tutti e due, venivano a vendere il pesce su alla villa.
Luigi in genere vendeva i polipi: li catturava con le mummarelle e li trasportava in un secchio con l'acqua di mare. 
Noi bambini ci giocavamo tirandoli fuori e lasciando che si appiccicassero alle nostre braccia con i tentacoli e le ventose. 
Poi, alle povere bestie prescelte, toccava il morso in testa e noi bambini assistevamo incuriositi e impotenti a questo che ci sembrava un rito.

Umberto, detto anche Pelle 'e Cane (non ho mai saputo perchè) , bell'uomo, alto dritto, saliva le scale seguito dai due figli, Peppino , magro e slanciato -che purtroppo morì giovane- e Rosario, piccolo e dolcissimo. 
Peppino e il padre portavano in testa un tino rotondo ciascuno, Rosario seguiva portando la bilancia di ottone su una spalla.
Mentre saliva, Umberto gridava forte : 
"Alici, Alici!" -e poi anche- " 'O pesce, 'o pesce!" e a questo richiamo spuntavano i gatti da tutte le direzioni.

A proposito di gatti...
A Giuseppone c'era una gatta simpaticissima, socievole, coccolona, con una faccina splendida.
Apparteneva a Stratuccio, ed era la mascotte dei pescatori. Appena questi attraccavano, era la prima a presentarsi, perchè sapeva che avrebbe ricevuto qualche pesciolino.
E quando tutti i canotti erano stati sistemati per la notte da Stratuccio, e fissati in fila lateralmente con le cime passate negli scalmi, la gatta, che con gran pazienza aveva aspettato la risacca, con garbo allungava la zampetta e riusciva a tirare a sè il breve capo di corda fissato nell'anello della banchina, saltava sul primo canotto e poi su quelli successivi. 
Nell'acqua sotto i paglioli trovava sempre qualche marvizzo o qualche mazzone.
Con lo stesso sistema tornava a riva.




giovedì 8 dicembre 2016

Il Natale napoletano negli anni '50

Era sentito, il Natale.
Era una festa che riavvicinava le famiglie, che faceva superare i malintesi, che faceva chiarire le incomprensioni (semmai ce ne fossero state), e riavvicinava alla religione quelli che durante tutto l'anno si erano mostrati disinteressati o indifferenti.
Eravamo davvero tutti più buoni!
Era la festa dei bambini ma anche dei poveri, che sempre, ma ancora di più in questa circostanza, erano guardati da parte di tutti con occhi commiserevoli ed aiutati con generi alimentari e con indumenti pesanti a superare l'inverno.
Il consumismo era una parola ignota.
C'erano invece l'affetto, la partecipazione; c'era il coro della chiesa alla messa di mezzanotte, c'era il suono delle campane, lo scambio sincero di auguri con tutti.
Si inviavano biglietti benaugurali ad amici e conoscenti; si sceglievano i più adatti a ciascuno e si imbucavano per tempo, affinchè arrivassero prima del giorno di Natale, e ugualmente si aspettava di riceverne.

A Santa Brigida c'era il mercato del pesce. 
Tutta la strada era occupata da vasche ripiene di tutti i pesci del golfo che sarebbero serviti per il pranzo e il cenone, e che venivano decantati dai pescatori.
Era uno spettacolo. Anche le persone che non comperavano andavano a vedere.

I padri di una volta, che si dedicavano già da tempo alla costruzione del presepe, trafficavano alacremente la sera dopo il lavoro con sughero, cartoni, colla e stelline dorate, circondati dai piccoli di casa incuriositi.
I pastori e le pecorelle venivano posizionati dai bambini più grandi; la Madonna e San Giuseppe, con il bue e l'asinello, erano soli nella stalla, perchè Gesù non era ancora nato e sarebbe toccato al più piccolo della famiglia riporlo nella mangiatoia.
Anche i Magi arrivavano in un secondo momento, perchè erano ancora in viaggio.
Le parrocchie, a loro volta, allestivano il presepe, e le famiglie portavano i figli a visitarli e a decidere quale fosse il più bello.

Le strade odoravano di caldarroste che, vendute bollenti nei piccoli cuoppi dai tanti improvvisati fuochisti di fornacelle, venivano poi messe nelle tasche per riscaldare le mani.

Durante la novena si incontravano un po' dovunque gli zampognari. In genere erano pastori vestiti con giubbotti di pecora, che venivano dalle montagne di Avellino o dall'Abruzzo nelle feste di Natale, per arrotondare le loro entrate. 
Suonavano nelle strade, e quella nenia malinconica che producevano la zampogna e la ciaramella ricordavano che all'atmosfera di festa bisognava aggiungere il raccoglimento.
Li si invitava a salire nelle case e a suonare davanti al proprio presepe, in cambio di un'offerta e di un bicchiere di vino (e a fine giornata l'alcool aveva fatto il suo effetto!).

Si andavano a dare gli auguri, facendo visita ad amici e conoscenti e scambiandosi pungitopo e vischio. Questo vischio molto bello e decorativo che, dopo qualche giorno. lasciava cadere le sue palline appiccicose!
Era anche l'occasione di "disobbligarsi" con un medico, un avvocato, un qualcuno che ci aveva in qualche modo favorito. Come dimostrazione di gratitudine si inviavano bottiglie di vino o di liquore approfittando delle festività natalizie.

Le madri, nel tempo precedente il Natale, erano andate con i mariti a scegliere l'albero. Lo avevano fatto arrivare a casa, avevano tirato fuori gli scatoloni riposti un anno prima e ripieni di palline di vetro colorate, nastri, fili d'argento, candeline e s'erano date un gran da fare ad addobbarlo al meglio.
Era una tacita gara che si svolgeva nel palazzo e tra le amicizie :
-"Hai fatto l'albero?
- "Vuoi vedere l'albero?"

Il giorno di Natale a pranzo, puntualmente, sotto il piatto del padre che fingeva di scoprirle per caso, c'erano una o più letterine. 
Il figlio o i figli, su questi foglietti comperati in cartoleria e decorati con la Natività o con un angelo, una cometa e tanta polverina d'argento, avevano scritto i soliti buoni propositi che venivano riproposti ogni anno:
-"...Vi prometto che sarò più buono.... che studierò di più... e che vi darò tante soddisfazioni!"

In genere il padre leggeva queste lettere ad alta voce, e i figli arrossivano, e ancora di più arrossivano quando dovevano recitare la tradizionale poesia.

A Napoli nelle feste di Natale nessuno rimaneva solo. 
Se in un palazzo viveva una persona singola, veniva invitata a festeggiare "in famiglia" anche se ci si conosceva soltanto di vista. E anche i poveri avevano la loro tavola apparecchiata nelle parrocchie , e dopo la cena e la messa andavano via trionfanti, abbracciando il panettone ricevuto il regalo.
Nelle case si giocava a tombola o al mercante in fiera, imbrogliando per fare vincere i più piccini.
Poi c'era lo scambio dei doni in famiglia. 
Le pretese dei bambini erano minime: degli album da colorare, dei pastelli, qualche libro, i soldatini per i maschi, una bambolina per le femmine. Per quelli più grandi il meccano e l'arte del traforo, per le bambine un passeggino e le pentoline per la cucinella.

I grandi invece si scambiavano cose utili: sciarpette, pantofole, astucci per gli occhiali, cinture.

Esisteva poi un'altra consuetudine, che i più giovani stenteranno a credere: la befana del Vigile.
I vigili allora non erano considerati come oggi dei nemici, e i pochi  automobilisti di allora rispettavano il loro ruolo riconoscendone l'autorità. 
A loro volta questi si prestavano a dare informazioni, a vigilare sull'ordine pubblico, a farsi portavoce delle richieste per rendere la città più vivibile, e per questo ricevevano molti doni. 
Li ricordo con i cappotti neri, il casco, i guanti bianchi, il fischietto, in piedi su quei piedistalli che sembravano mezzi tini capovolti, circondati da torroni, panettoni, salumi, scatolame, bottiglie. 

In quei tempi andati che la memoria si ostina a ricordare e a riproporre esisteva innanzitutto la Famiglia, e mi stupisce pensare al declino rapidissimo che ha subito l'armonia che regnava allora, quando il poco che si aveva sembrava già superfluo, e ci si accontentava e si sorrideva alla vita.

Buon Natale a Tutti!



La Befana del Vigile - foto di Renato Minopoli



Il mercato del pesce a Santa Brigida (foto da internet)

Gli zampognari (Archivio Fotografico Parisio)


sabato 12 novembre 2016

Mio padre

A distanza di 50 anni dalla scomparsa di mio padre, ho sentito il bisogno di scrivere qualcosa ricordando la mia infanzia, con lui, nella nostra Posillipo di allora.

Quando eravamo bambini, mio fratello ed io, andavamo incontro a nostro padre che ritornava da lavoro in città.
Salivamo il viale, arrivavamo alla strada e sedevamo in attesa su due pilastrini di pietra che ancora esistono, fuori al cancello della villa. Parlo di tantissimi anni fa, addirittura prima degli anni '50. Il filobus che ci avrebbe riportato nostro padre era l'allora numero 40.
Era tale il silenzio della strada che lo sentivamo arrivare già da piazza S. Luigi; inoltre ci regolavamo scrutando il movimento dei cavi ai quali venivano attaccati i trolley.
Le macchine erano rarissime: in un'ora nelle due direzioni se ne potevano contare tre o quattro.
Papà arrivava, alto, snello, sorridente e distinto.
Fingeva di essere sorpreso di vederci ma in realtà ci aveva già adocchiato dal finestrino.
Era contento, era affettuoso, era una persona semplice, innamorato della vita e della sua famiglia.
Riscendevamo il viale insieme. Io mano a mano con lui gli saltellavo al fianco, cercando di tenere il loro passo, mentre lui si informava di noi, della nostra giornata. dei nostri amici.
Dopo cena, sedevamo in terrazza al fresco, sotto gli alberi, e noi ragazzini eravamo adibiti al trasporto da casa delle sedioline da regista che ospitavano man mano gli amici dei nostri genitori e i nostri vicini di casa. Nelle sere di luna piena, invece, tiravamo fuori le sedie a sdraio, per meglio apprezzare la scia argentata sul mare, dopo aver seguito il suo cammino tra gli alberi.

Soltanto il venerdì era sacro. Dovevamo tacere tutti, perchè alla radio trasmettevano la prosa. 
Papà aveva recitato da giovane in una filodrammatica con buon successo di pubblico e di critica. Segnalato a Pirandello, gli si presentò per un'audizione. Fu scelto. Sarebbe dovuto partire dopo un paio di giorni per recitare nella compagnia con Marta Abba. Tornò a casa eccitatissimo ma i suoi sogni di gloria si infransero contro il divieto assoluto di mio nonno, che lo voleva laureato come i suoi fratelli, e che mai avrebbe accettato di avere un figlio... artista.
Penso che la rinuncia dovette pesargli molto (ma allora si ubbidiva ai genitori).
Si consolava ascoltando la prosa alla radio. Molte commedie gli erano note e ne conosceva le battute a memoria.

Alla domenica, papà e io andavamo a messa. A volte alla chiesa di Bellavista, spesso al Mausoleo.
Mi piaceva la solennità di quel sacrario. Leggevo i nomi di quei caduti: mio padre, commosso, mi indicava quelli che aveva conosciuto. Per raggiungere la chiesa, oltre alla scalinata centrale, ci sono due viali laterali paralleli. Io ne imboccavo uno e mio padre l'altro e una volta arrivati su, fingevamo di incontrarci per caso. Per i miei allora pochissimi anni, questo camminare da sola lungo questa strada che mi sembrava grandissima, aveva il senso della libertà.
Altre volte andavamo nella cappellina della villa Pica, salivamo la scaletta coperta di plumbàgo turchese e la trovavamo alla nostra destra.
Era una chiesa piccolissima. Per raggiungerla c'era un cancelletto che racchiudeva uno spiazzo sterrato con tanti vasi vuoti di terracotta di varie dimensioni. Evidentemente fungeva da vivaio per qualche giardiniere.

Dopo la messa ci allungavamo alla salumeria del Ricciulillo, (il Cotugno capostipite) che allora aveva la bottega dove adesso c'è il Bar Rivalta. L'attuale palazzo infatti, non c'era ancora.
Veramente, più che una bottega quella del Ricciulillo era una grotta. Lì compravamo il latte e il pane, e ordinavamo la spesa. Un'altra tappa la facevamo dal padre di Agostino Russo. Compravamo la frutta e i fichi che venivano raccolti nella sua terra, sotto la strada, di fronte alla chiesa di Bellavista. Poi papà comprava il giornale per sè e i fiori per mamma (ginestre e margherite gialle) e tornavamo a casa.

Indossavamo rapidamente i costumi. Papà ne aveva uno blu di lana, con la cintura bianca; mia madre aveva un costume nero intero, e anche noi ragazzini portavamo queste mutandine di lana che, impregnandosi con l'acqua di mare e il sale, diventavano dei bermuda pesantissimi.

In genere, Peppe 'o Russo ci accompagnava con la barca verso Villa Martinelli.
Ricordo che davanti a Villa Carunchio c'erano due colonne ammalorate di mattoni, dai quali si tuffavano i bagnanti. Li guardavo estasiata. Non vedevo l'ora di "farmi grande" per poterli emulare, ma non ci riuscii mai, perchè il mare le spazzò via da un anno all'altro. Altre volte affittavamo la barca e ci recavamo sull'altro versante.La nostra meta erano le lunghe gialle chiane di tufo di villa Maisto.

C'era una grotta, subito prima degli scogli, all'interno della quale sgorgava un'acqua sorgiva leggera, delicata e dolce. La si raccoglieva immergendo appena sotto la superficie del mare una bottiglia vuota tappata con un dito; si intercettava la vena, che quasi affiorava, e si attendeva che l'acqua la riempisse.
Per noi ragazzini era un divertimento, ma anche tanti adulti raggiungevano con le barche la sorgente. Accanto alla grotta (ormai murata!), c'era una bella spiaggia di sabbia doppia, attualmente ignobilmente ricoperta per farne una banchina solarium ad esclusivo uso e consumo dei "nuovi" inquilini del parco Sud Italia, che purtroppo ha cementificato anche quella che era una campagna selvaggia e meravigliosa.

Altre volte ci fermavamo a Villa Rosebery
La spiaggia allora era accessibile, e si tolleravano anche gli ombrelloni. Sul muraglione di fondo c'erano le garitte, e due marinai erano sempre di guardia. Io sapevo già nuotare, ma non mi spingevo mai fin sotto villa Emma perchè tutta quell'abbondanza di alghe che non permettevano di vedere il fondale, mi incuteva un certo timore.

Tornavamo a casa stanchi, abbronzati e felici.
Ci attendeva una doccia all'aperto, con la cannola posizionata sotto una quercia.
Papà, poverino, era l'ultimo e gli toccava l'acqua più fredda.
Nel pomeriggio, ogni tanto, facevamo una passeggiata avendo come destinazione la gelateria dei Nicolai a Piazza San Luigi, successivamente sostituita dai Bilancione. La specialità del signor Pietro, che forse qualcuno ricorda, era la Giardiniera: un gelato alla crema con pezzetti di frutta candita di tutti i colori.

Queste erano le nostre estati di bambini, meravigliose e semplici.
Nel nostro viale avevamo tanti amici, con i quali giocavamo a guardie e ladri, o facevamo le corse con i carruocioli o riscendevamo nel pomeriggio sugli scogli a pescare.
Ma il clou delle nostre estati si raggiungeva con la festa di Piedigrotta. Tutti noi bambini ci mobilitavamo per ritagliare a mo' di gran pavese tante bandierine di carta velina colorata e le attaccavamo con la colla fatta di acqua e farina sui fili di spago che venivano tesi da un albero all'altro. Mio fratello ed io contribuivamo anche con dei palloncini di carta di varie forme, che chiusi erano schiacciati e che si aprivano a fisarmonica; all'interno si metteva un lumino.
Li aveva portati mio nonno dal Giappone, e allora rappresentavano una rarità. Le madri partecipavano alla festa con dolciumi e pizzette; specie la signora Brescia, autrice di brioches leggendarie.

La fine di Settembre si avvicinava rapidamente e con essa purtroppo anche la fine di questa vita brada. Allora, ci aspettava il rientro a scuola e dovevamo lasciare il paradiso di Posillipo per la casa dei nonni, in città.
Questa era una casa molto grande, severa, con tendaggi e tappeti, dove convivevano in serenità quattro generazioni.
Ma questa è un'altra storia...





domenica 30 ottobre 2016

Il Barone Carnap

Era il 1959. Avevo 18 anni.
Fui invitata a casa di una bella ragazza simpatica che conoscevo perchè prendevamo il filobus a due fermate di distanza e facevamo un lungo tragitto insieme. Aveva organizzato una festicciola, un "balletto" come si diceva allora, quando la padrona di casa invitava i suoi amici per fare nuove amicizie, per conoscersi, per ballare.
Qualcuno portava il giradischi, altri portavano i dischi, in genere americani, sul frontespizio e sulla copertina dei quali aveva provveduto a scrivere il proprio nome e cognome per non perderli a fine serata.
I ragazzi di oggi, che vivono di discoteche e musiche assordanti, non sanno che cosa si sono persi!
Noi eravamo insicuri, ingenui ed educati.
I più timidi stazionavano vicino al giradischi, fingendo di interessarsi ai titoli delle canzoni, per darsi un tono.

In questo caso, però, la festa languiva alquanto.
Ma quando noi, rimasti in pochi, stavamo per salutare la famiglia che ci aveva ospitato ed andare via, questa ragazza ci pregò di aspettare un attimo, perchè doveva fare una telefonata.
Infatti telefonò e ci comunicò che il Barone Carnap, evidentemente conoscente dei suoi, ci attendeva tutti già alla villa.

Il Barone Filippo Costantino Von Carnap per i posillipini era un personaggio singolare. Pochissimi lo conoscevano se non di nome. Non usciva mai e in pochi lo avevano visto.
Si sapeva che abitava in questa splendida villa nella quale in gioventù aveva ricevuto amici per lo più tedeschi e austriaci.
I marinai più anziani raccontavano che da giovane aveva un aspetto gradevole e che andava lentamente in barca con i suoi ospiti lungo la costa, accompagnato da cantori e musici. In effetti, la villa non era sua, lui era il terzo marito della baronessa che ne era proprietaria e dalla quale, nonostante fosse separato, era riuscito a farsi cedere l'usufrutto della proprietà.

Varcare quel cancello, in genere invalicabile anche per la presenza di un grosso cane da guardia, scendere lungo quel viale tra i pini d'Aleppo, palme e agavi, affacciarsi ad ogni curva per godere da una nuova prospettiva la visione del vallone ubertoso di villa Peirce, la darsena e la spiaggia, con la città sullo sfondo, scoprire scorciatoie di vialetti e scalini immersi nel verde, fu per me un'esperienza indimenticabile.
Conoscevo la villa del Cenito soltanto da mare, oppure la intravedevo adagiata nella vegetazione dal viale di casa mia; non pensavo che avrei un giorno attraversato il suo parco.
Arrivammo giù.
L'esterno della costruzione era abbastanza malandato. Un filo elettrico volante sosteneva una lampadina che mandava una luce splapita, come direbbe Camilleri, illuminando fiocamente il portone d'ingresso e lo stemma in pietra che lo sovrastava.
Bussammo e ci venne ad aprire un vecchio servitore con una livrea ormai lisa e incolore.
Entrammo in un ingresso che aveva a destra una scala in legno che saliva al piano superiore, mentre a sinistra, un salone con un grosso lampadario, sui bracci de quale erano rimaste soltanto due lampadine spaiate, faceva luce a qualche poltroncina sgangherata e a sedie di vari stili ma diverse l'una dall'altra.
Un odore acre e appiccicoso come di spezie orientali riempiva l'aria e fra nuvole azzurrine di fumo, vedemmo quattro o cinque ragazze, sciatte, ultratruccate, spettinate, malvestite e dallo sguardo allucinato, che ci guardavano sospettose, mentre una musica malinconica e inquietante veniva riproposta continuamente.
Non ricordo di avere visto maschi.
Noi eravamo arrivati pieni di vita, giovani e festosi, divertiti dalla novità, e ci ritrovavamo in un ambiente strano, insolito, che non conoscevamo e non ci apparteneva.
Ci ho ripensato dopo anni e ogni volta che ricordo, mi sembra di aver partecipato ad un film di Fellini.

Il barone comparve dopo un po' di tempo.
Scese la scala accompagnato da una ragazza di una magrezza impressionante, con gradi occhi bistrati e spenti, con un abito ciancicato di chiffon grigiastro.
Lui, vestito di tutto punto, con un vecchissimo abito scuro fuori moda e la papalina.
Nel mio ricordo assomigliava a Pirandello; si vedeva comunque che era un aristocratico, anche se in decadenza. Fu gentile e brusco, si trattenne poco con noi, e scusandosì si ritirò al piano superiore.
Penso che allora avrà avuto sui 70 anni (se ne aveva meno, erano mal portati).
Dopo una doverosa e imbarazzata sosta di una ventina di minuti, risalimmo il viale commentando e sghignazzando, un po' perplessi da questa serata strana, al di fuori dai nostri canoni.
Sapemmo poi che il barone, dopo aver tentato di farsi trasferire anche la nuda proprietà della villa per sottrarla agli eredi legittimi,  figli di un precedente matrimonio della ex moglie, fu invece da questi allontanato per sempre.
Essi dimostrarono infatti che Von Carnap non solo aveva venduto tutta la mobilia di valore, ma addirittura un manufatto isolato all'interno del parco.
Nel 1963 la villa venne acquistata da una persona giuridica che riscattò anche il diritto di usufrutto, costringendo il barone ad abbandonarla definitivamente.
Nello stesso anno il barone ne morì.

Villa Carnap - grazie a "Il nostro Posillipo"

martedì 6 settembre 2016

Il Presidente... e la moglie di Ascione

Carlo Adamo, che ringrazio, mi ha ricordato un episodio esilarante che si svolse a Riva Fiorita.
Certo, non conoscendo il soggetto, il raccontino perde molto, ma comunque vale la pena ricordarlo.

Giuseppe Saragat fu Presidente della Repubblica dal 1964 al 1971.
Era soprannominato "Barbera" per la sua eccessiva propensione al bere. Molte erano le storielle che avevano a che fare con questa sua debolezza. Si diceva che al Quirinale la mattina presenziasse all' "Alzabarbera" e che, interpellato all'estero sui colori del nostro tricolore, rispondesse che erano "Bianco, Rosso e... Verdicchio".
Come tutti i presidenti della nostra repubblica, aveva diritto di trascorrere dei giorni di vacanza nella splendida Villa Rosebery, e più volte ne approfittò.
Durante il suo settennato, forse nel 1970, manifestò la curiosità di vedere dove conducesse la strada che per lui terminava col grande cancello della villa; volle percorrerla tutta forse anche per vedere il mare da vicino.
Accompagnato da una scorta di vigili che fungevano da guardie del corpo, arrivo giù a Giuseppone; si soffermò a guardare il panorama e si inoltrò tra i due pilastri dell'ingresso di Riva Fiorita.
Arrivò alla piazzetta, ma improvvisamente comparve vociando la moglie dell'allora portiere di Villa Marino.
Il compito della signora Ascione era quello di non permettere a nessun estraneo di mettere piede all'interno della proprietà. Bisogna dire che assolveva al suo compito con grande diligenza. Era una donna bassa e robusta, vestita di nero con un grembiule sul davanti, con i capelli e gli occhi grigi, senza l'ombra di un sorriso, con un piglio autoritario e uno sguardo duro che incuteva soggezione. In genere brandiva un matterello col quale minacciava i ragazzini che giocavano al pallone tra le macchine e che strappavano i fiori. Arrivò alle spalle del Presidente, e battendo le mani con le braccia tese avanti a sé tuonò:
 "Giuvinò, ascite 'a parte 'e fore! Jatevenne! Ccà nun putite sta' !".

Il giovanotto (che era Saragat), forte della sua autorità ignorò questo invito mentre i vigili tentavano di spiegare che quel signore era il Presidente della Repubblica.
" Allora nun avìte capito. Ve n'avìte ascì! Je nun guardo 'nfaccia a nisciuno. Nun tengo niente a vedè co' vvuje. Jatevenne!" .
Intervenne poi il marito, al quale i vigili spiegarono che il presidente aveva espresso il desiderio di conoscere dove portasse quella strada. Finalmente, guardati in cagnesco dalla signora Ascione, che, integerrima nella sua funzione, li tallonò fino all'uscita, si allontanarono tra le risate soffocate di quanti avevano assistito alla scena.






Un burbero... Dolcissimo (un altro racconto su 'Zi Rafele)

Giovanni Caputo e Gennaro Improta (autore della bella foto che accompagna questo racconto), in tempi diversi mi hanno chiesto affettuosamente di scrivere ancora qualcosa su Zì Rafèle.
Lo faccio con piacere perchè gli abbiamo voluto bene in tanti e perchè le persone semplici e buone non vanno dimenticate.


Per l'anagrafe era Raffaele Cammarota, vedovo; ma per tutti noi era 'Zi Rafele.

Aveva un figlio ricoverato per problemi di salute e una figlia sposata che di tanto in tanto andava a trovarlo.
Lui, aspettava con eccitazione questo momento, ma puntualmente questo incontro tanto atteso, terminava con una gran litigata.
Aveva anche un fratello più giovane, tranquillo e ben vestito, che gli rimproverava il suo vivere eccessivamente spartano e che ogni tanto gli faceva visita.

Quando l'ho conosciuto abitava di fronte all'istituto Denza; solo successivamente si trasferì in una stanza a villa De Mellis, alla fine della discesa di Giuseppone, dove viveva da solo.
In questa stanza possedeva un letto e un cassettone. 
Nel primo tiretto di questo, c'era una coppetta di ceramica nella quale riponeva i soldi racimolati affittando i "canotti" o facendo piccole riparazioni alle barche che gli venivano date in custodia.
La porta della stanza rimaneva sempre aperta.
I ragazzini della villa lo sapevano, e spesso prelevavano piccolissime somme dalla coppa.
'Zi Rafele era al corrente di questi furtarelli; prima si arrabbiava, poi invitava i ladruncoli a non prendere più di quanto potesse costare un gelato per ognuno di loro.
Nel secondo tiretto viveva invece un... gatto.
Il gatto di 'Zi Rafele era uno spirito libero. Trovando la porta sempre aperta, andava, veniva, si riposava in quel tiretto che considerava la sua cuccia e nel quale trovava sempre le lische e gli avanzi del pesce che il suo padrone gli conservava in una carta da pane.
Anche 'Zi Rafele mangiava in una carta da pane.
Ogni lunedì sera si recava a casa di Salvatore il bagnino, che abitava a un passo da lui, per vedere il film americano che veniva trasmesso dalla TV ogni settimana.
Diceva alla signora Brigida, moglie di Salvatore -e da lui sempre chiamata Maria, non si sa perchè - "Stasera vengo a vedè 'o ginnema fatigato" .
Forse voleva dire impegnato, quindi girato con fatica.
Fatto certo è che gli piacevano i film tipo Casablanca, San Francisco, Gilda, Via col vento, e come attori Spencer Tracy, Cary Grant, James Stewart, Jane Russel, Liz Taylor, Rita Hayworth e tutti quelli di quell'epoca.
A volte era invitato a cena, altre volte si portava da casa il pesce fritto e lo mangiava nella carta usata a mo' di piatto. Oppure portava con sè pane, mortadella e una bottiglia di birra, che erano comunque il suo pasto abituale.
Poi tornava a casa, in questa stanza impregnata di odore di alcool, di fritto e di fumo, beveva un paio di bicchieri di vino e dormiva come un sasso.

Aveva un amico, che si chiamava anche lui Raffaele. Questi era un uomo imponente che aveva un laboratorio-deposito alla fine di via Santo Strato.
Lì aggiustava vecchie radio, telefoni, e piccoli elettrodomentici.
Spesso scendeva a Riva Fiorita cavalcando una grossa moto, portando sempre il giornale L'unità sotto il braccio ma bene in vista.
Gli piaceva erudire 'Zi Rafele sul comunismo e i suoi benefici effetti sui lavoratori, al punto che Mao-Tse-Tung (da lui ribattezzato Mautumm) era divenuto il suo idolo.

C'era poi una signora, una certa Cherìe, appassita dagli anni che tenacemente cercava di nascondere sotto un trucco pesante, ma vistosa e ancora con qualche attrattiva.
Abitava anche lai a Villa Marino, e intratteneva piacevolmente sia 'Zi Rafele che 'Zi Gennaro (da tutti chiamato "gentiluomo"), il quale si occupava di giardinaggio e coltivava a suo uso e consumo un orto che aveva ricavato da un pezzo di terra che divideva due rampe della discesa di Giuseppone.

Ogni volta che 'Zi Rafele o 'Zi Gennaro andavano a trovare la signora, i ragazzini della villa, nascosti dietro la sua porta, chiamavano a gran voce ora l'uno, ora l'altra, sghignazzando e pronti a scappare.
Questo accadeva puntualmente, con grandi insolenze di Cherìe, che in queste occasioni perdeva tutto il suo aplomb, finchè un giorno non ne potè più.
Uscì di casa come una furia, armata di un paio di forbici, raggiunse uno dei ragazzini e lo colpì con forza ad una coscia.
Il ragazzo fu portato al pronto soccorso, e se la cavò con diversi punti di sutura; ma contrariamente a quanto sarebbe accaduto oggi, suo padre non soltanto non denunciò l'accaduto, ma penso che gli abbia affibbiato due sonori schiaffoni.

'Zi Rafele era tormentato da un catarro bronchiale cronico, alimentato dalle Nazionali Esportazione che fumava, e dal vivere scalzo, spesso anche in inverno. Lo si vedeva con i bermuda cachi tenuti su con la cinta di cuoio, e talmente impregnati di salsedine da essere diventati rigidi, con l'ombrello in mano e senza scarpe.

Lo ricordo quando riprendeva i ragazzi e diceva :
"Figlio 'e Gargiulo, ce 'o ddico a ppatito!" - "Figlio 'e Valente, scinne a llà 'ncoppa !" , perchè non potendo ricordare i nomi di tutti, li identificava per famiglia; ma dopo le minacce in cambio di una birra insegnava loro a fare i nodi di marinaio.


Grande 'Zi Rafele!
Incazzoso e buonissimo.
Cadde per le scale mentre si recava da Cherìe e si ruppe il femore.
Fu portato al Fatebenefratelli, fu messo in trazione, ma morì per una sopraggiunta polmonite.
Non ricordo bene: doveva avere tra gli 83 e gli 85 anni.
'Zi Rafele in una foto degli anni '60, dall'archivio privato di Gennaro Improta, che ringraziamo

sabato 11 giugno 2016

Le "ondine" di Sportsud

Nell'estate del 1954 il giornale sportivo locale pensò bene di organizzare un concorso di bellezza.
Si chiamava "Ondina di Sportsud".
In tutti i lidi e stabilimenti di Napoli e provincia sarebbe stata scelta una bella ragazza che avrebbe successivamente dovuto dimostrare di essere anche la più veloce in piscina superando tutte le altre elette in una gara di nuoto su una distanza di 50 metri scarsi, in quanto uno dei bordi della vasca veniva occupato da un palco montato in parte in acqua.
Per questa novità ci fu un gran fermento. Il premio in palio consisteva in una 600 Fiat (che allora rappresentava il sogno di tutti gli italiani) e in omaggi vari offerti da ditte che volevano farsi pubblicità.
Il concorso ebbe successo, partecipavano e vincevano le selezioni ragazze mai conosciute prima, alcune nemmeno troppo avvenenti, ma certamente più spavaldi delle nostre ragazzine locali, graziose, semplici e ingenue (altri tempi!) che non se la sentivano di sfilare in passerella e di essere valutate o eventualmente, ancora peggio, scartate per il loro aspetto.
Le concorrenti che non erano risultate vincitrici ci riprovavano riproponendosi alla valutazione successiva presso un altro lido, supportate questa volta dalla claque di fidanzati, amici e parenti.
Le difficoltà iniziavano con la prova sportiva.
Non ho grandi ricordi di questo primo concorso, mentre ricordo perfettamente le edizioni successive, in quanto praticando allora nuoto agonistico, vedevo arrivare queste ondine, altrettanto impacciate in acqua quanto erano state disinvolte a mettersi in gioco al concorso di bellezza.
Venivano ad allenarsi alla Mostra d'Oltremare, in quella che allora era l'unica piscina di Napoli, e pretendevano in poche settimane di tempo, di sopperire alle loro notevoli carenze natatorie.
Noi che nuotavamo davvero, le guardavamo con sufficienza e con fastidio, ritenendo il "nostro" sport contaminato dalle goffe nuotate di quelle che consideravamo arrembanti smorfiosette.

La finale, in settembre, avveniva in grande stile.
Presentatore, illuminazione, musica, sfilate, fotografi, batterie, cronometristi, giudici di gara, tifo, fino all'incoronazione e alla consegna delle chiavi dell'auto alla vincitrice.
Il tutto tra sorrisi, lacrime, delusioni, mugugni e invidie, come sempre nei concorsi di bellezza.
Questo concorso ebbe varie edizioni.
Fu poi accantonato insieme alle ondine, che trascorso un breve ma intenso periodo di notorietà, vennero a loro volta dimenticate.







Tutte le foto sono pubblicate da www.museodelmaredinapoli.it ,  che ringraziamo.

domenica 1 maggio 2016

...quando arrivava la "staggione"

Fino alla metà degli anni '50 non esistevano tutti i motoscafi che attualmente infestano il golfo e il mare di Posillipo.
In ogni rada c'erano i pescatori che affittavano barche a remi e sandolini, mentre a Mergellina quelli che ritenevano di essere esperti di venti e di correnti, noleggiavano i dinghy
A volte, qualche yole, silenziosa e rapida, solcava velocemente il mare.
La villeggiatura era un lusso per pochi, in compenso esistevano i lidi e gli stabilimenti.
A Posillipo si iniziava dal Sea Garden, lido esclusivo con alberi e spiaggetta privata, frequentato da bagnanti abbienti e spocchiosetti. 
Pochi metri più avanti, dopo il circolo, c'erano il bagno Ondina e l'intramontabile bagno Elena che confinava con il bagno municipale Donn'Anna. Quest'ultimo, dall'ingresso gratuito, era preso d'assalto da ragazzini indiavolati e dalle rispettive vocianti e opulente madri.
Tutti venivano scaricati dal filobus 240 con i loro ombrelloni, borsoni, camere d'aria e salvagenti con la paperella; qualcuno addirittura con la sedia a sdraio portata da casa.
Affacciandosi dal parapetto della strada sovrastante si sentivano i gridolini di eccitazione dei tanti bambini che scoprivano il mare e le sue meraviglie.
C'era poi il bagno Sirena, Grottaromana più adatto alla buona borghesia, il Lido del Sole montato davanti a Villa Martinelli, dal quale partiva Proggiolone con gli squisiti panini che avrebbe venduto al Cenito.
Questi lidi erano perlopiù frequentati da persone che venivano dalla città, perchè i posillipini avevano sempre una amico cui appoggiarsi e sfruttarne la discesa privata a mare.
Altri ancora scendevano a Villa Lauro, dove un portiere compiacente permetteva loro di godere della spiaggia e della scogliera.
Poi c'era lo stabilimento di Riva Fiorita.
Mentre tutti questi bagni e lidi venivano ogni anno montati su palafitte, e smontati a fine stagione, Riva Fiorita, che in effetti era un parco sul mare, aveva le cabine in muratura, le docce, il bar, la pizzeria, il juke box, la pista da ballo, il biliardino.
Qui, ai pochi villeggianti che affittavano le case per l'estate, si aggiungevano i bagnanti, che in massima parte arrivavano via mare, sbarcando dalle motobarche.
Ancora più avanti, a Marechiaro, il Lido delle Rose, tuttora in esercizio, era l'ultimo di Posillipo.
I maschi passavano lentamente con le barche sotto i pontili di legno per adocchiare le ragazze più carine, e si tuffavano per fare colpo, oppure giocavano in acqua passandosi un pallone arancione "Superflex".
Le ragazzine li guardavano di sottecchi, arrossendo e ostentando indifferenza.
Ci si divertiva con poco. Si organizzavano gare di nuoto e pali della cuccagna, sfide a calcio balilla.
I più anziani giocavano a carte sui tavolini pieghevoli addossati alle ringhiere di legno.
Di fronte a Nisida c'era poi lo splendido, enorme, frequentatissimo Lido Pola, e sulla spiaggia di Coroglio, il lido omonimo, insieme al lido Marechiaro, montato irresponsabilmente sui ruderi di una villa romana e ormai ridotto soltanto ad un solarium.
La spiaggia di Coroglio negli anni '50-'60

Il bagno Elena

sabato 27 febbraio 2016

Le motobarche


C'e stata un'altra persona, a Riva Fiorita, che merita assolutamente di essere ricordata.
Una persona che, nell'ormai lontano 1949, ebbe l'intuizione felice del trasporto via mare dei bagnanti dalla città agli stabilimenti balneari : il signor Franco Esposito.

Comperò una motobarca, la chiamò Sorrento (come il paese che gli aveva dato i natali) e la affidò a un capitano di lungo corso, siciliano, minuto, abbronzato e con i capelli a spazzola, che si chiamava Casimiro.

Fece allestire un pontile nella piccola rada di Riva Fiorita, fra le due spiaggette (allora ce n'era un'altra, che è stata poi inglobata dal cemento), e dette inizio a queste gradevolissime passeggiate per mare che tanta gioia procurarono ai ragazzini che,alla felicità dei bagni e delle vacanze, aggiungevano l'avventura della traversata col vento fra i capelli e sulla faccia.
Casimiro passava sotto costa, nominando tutte le ville che incontrava sul suo cammino, e teneva buoni i bambini a bordo con taralli, chinotti e aranciate.

All'arrivo a Riva Fiorita, i figli scalpitanti scendevano sul pontile insieme alle madri e alle vettovaglie portate da casa; queste ultime sarebbero state poi consumate sulla terrazza dello stabilimento dove, all'ora di pranzo, venivano allestite delle grandi tavolate.

Il trasporto via mare ebbe un grande successo: durò infatti circa 20 anni, fino al 1968.
Alla Sorrento si aggiunsero nel tempo la Marechiaro, guidata da un marinaio chiamato Masaniello, la Annamaria, dal nome della figlia del Signor Esposito, la Falco, la Jolly e la San Ciro.
Queste motobarche che ormai solcavano con frequenza il golfo traghettando persone sorridenti e felici, partivano dal Molosiglio, facevano una prima tappa alla Colonna Spezzata, poi a Mergellina, a Riva Fiorita (in un secondo tempo poi a Giuseppone) e infine a Marechiaro dove c'era il Lido delle Rose.
Erano puntualissime: si potevano regolare gli orologi sulle loro partenze e sui loro arrivi.
Quando una delle motobarche doppiava il Capo di Posillipo, e quindi mancavano pochi minuti all'attracco, un altoparlante diffondeva dal Lido la canzone "Fenestella 'e Marechiaro", segnalandone l'arrivo.


Il signor Esposito era un grande amante del mare.
Spesso andava a pescare con Bernardino, che a dispetto del nome era invece un omaccione che veniva da San Pietro ai Due Frati ed era una persona dolcissima. 
Lui lo chiamava dal balcone quando lo vedeva passare e Bernardino si avvicinava vendendogli quello che aveva pescato (ostriche, scorfani, polipi, salpe...); altre volte uscivano insieme in barca.
Bernardino raccontava storie fantastiche, di animali parlanti, di magie, di incantesimi, di tesori nascosti in fondo al mare, e così intratteneva la piccola Annamaria e i suoi amichetti che lo ascoltavano estasiati. 
Viveva in barca e dormiva sotto le stelle.
Quando pioveva o mareggiava, e in inverno, Bernardino si riparava nella grotta del cantiere Postiglione, dove un giorno triste fu poi purtroppo ritrovato senza vita.

Ritornando alle motobarche, il servizio durava fino al tramonto, ma la sera partiva un'ultima corsa.
Nelle calde serate d'estate le coppiette, i turisti, gli anziani, si imbarcavano per avere un po' di refrigerio alla calura, e quest barcone li portava al largo per permettere loro di godere della vista della città illuminata, mentre le canzoni di Napoli incise su un registratore, venivano diffuse dall'altoparlante di bordo e la loro melodìa raggiungeva tutte le case che si affacciavano a mare.


L'arrivo di una delle motobarche a Giuseppone a mare




L'approdo a Riva Fiorita

Le motobarche al Molosiglio (foto gentilmente fornita dalla signora Annamaria Esposito)

Il signor Franco Esposito (foto gentilmente fornita dalla signora Annamaria Esposito)

Approdo alla Colonna Spezzata, via Caracciolo

Da villa Volpicelli


venerdì 12 febbraio 2016

Posillipo, luogo dell'anima

Ho sempre sostenuto che Posillipo, oltre ad essere un quartiere di Napoli, sia uno stato d'animo. 
(So che i Posillipini DOC capiranno).

La mia Posillipo, quella che sempre mi emoziona e mi rasserena, inizia dopo villa Pavoncelli, quando tra i pini della sottostante Grottamarina si scorgono il Vesuvio e il mare. 
Tantissimi anni fa, di fronte, un po' prima , sulla destra, dopo la chiesa, sulla salita del viale, c'era una pensione. Si chiamava pensione Fresie
Non ho mai avuto occasione di andarci, ma ricordo che sulla strada, prima del cancello, legata all'inferriata c'era una enorme targa rettangolare in metallo, sulla quale erano stampati dei grossi fiori gialli che la pubblicizzavano. 
Quando venivo dalla città e vedevo quel cartello, mi sentivo a casa. 
Conoscevo il cantiere Postiglione, dove per anni ho custodito la mia barchetta, le piccole scale e l'ascensore per raggiungerlo; la bouganvillea di Villa Cottrau, i due scogli di San Pietro ai due Frati, la scala del canalone, la palma e il pino di villa Bracale, il glicine di Grotta Romana.
E Villa Martinelli, e Piazza San Luigi, dove avevo tanti amici, e l'elettroforno, e i gelati di Bilancione
E il susseguirsi di ville: Villa Elisa, villa d'Abro, villa d'Avalos, villa Peirce, RoccaBella, Rocca Belvedere, fino ad arrivare alla visione spettacolare di Napoli vista dal cancello del Cenito.
E ancora villa Rae, con la sua portineria che sembra un tempietto con le colonne doriche.
E villa Gallotti, dove ho vissuto felice per tanti anni, e villa Caflish, con i suoi vigneti e le stalle, le mucche e i contadini (ormai tutto è stato inglobato dal parco Rivalta!).
E il Mausoleo, i giardinetti, la villetta con i cani di terracotta, la chiesa di Bellavista, la casa di Agostino, la discesa di Giuseppone, villa Volpicelli, Riva Fiorita, la Farmacia di Fofò, Vegezio e il cinema Posillipo.
E poi le sette palazzine, il delizioso borgo del Casale, e Marechiaro.

Conoscevo quelle ville da terra e da mare.
Mi mancano il profumo degli aghi di pino e delle foglie di eucaliptus, che i giardinieri bruciavano dopo averle raccolte nei viali, e i vaporetti per le isole che nell'incrociarsi si salutavano con la sirena. 
E i comandi secchi dei timonieri che scandivano il tempo di voga per i canottieri con le maglie a righe.
E il rumore dei colpi di maglio che fissavano al suolo le palafitte per i pontili e per gli stabilimenti, preannunciando così l'arrivo dell'estate imminente.
E le mareggiate, e le lampare, e i fuochi a mare a Piedigrotta.
E le regate veliche, e la coppa Pattison, e la Lysistrata per le yole a 8 con timoniere che partivano da Giuseppone e arrivavano alla Colonna Spezzata.
E le cicale, e i grilli, e i gabbiani, e i gatti presenti in tutte le palazzine e le ville.
E la motobarca che la sera faceva il giro del golfo mentre le melodie delle canzoni napoletane suonate a bordo riempivano dolcemente il silenzio.

E' questa la Posillipo che amo, dalla quale sono purtroppo lontana, e che cerco di far rivivere con i miei ricordi.




venerdì 29 gennaio 2016

Lo spavento di Vincenzo

A Giuseppone si raccontava che, a casa di Barbetta, cinque o sei persone scelte da lui venissero invitate a turno a prendere parte a una seduta spiritica, nella sua verandina sul mare.
Mi sarebbe piaciuto molto partecipare, ma la notizia non era mai stata effettivamente pubblicizzata, e pensando che con una mia richiesta di invito avrei dimostrato di essere al corrente di quella che poteva essere soltanto una voce, non chiesi mai di poter essere anche io presente.

Una sera Vincenzo, il giardinere di villa Carradori, anima candida di cui ho già parlato, si vestì di tutto punto e scese a Giuseppone.
Mi disse che era stato invitato varie volte da Barbetta, e che aveva sempre declinato l'invito.
In realtà era più spaventato che incuriosito, ma questa volta non poteva più esimersi.
Anche io spinsi per farlo andare, perchè non vedevo l'ora che tornasse per relazionarmi su quanto aveva visto e sentito.

Ed ecco più o meno il racconto che mi fece il giorno dopo:

"Erémo sei o sette 'e nuje. Stévemo 'o scuro, arrivava sùlo 'a luce 'e nu lampione 'e fore. 

Nisciuno parlava. 
All'intrasatta se vedette 'na luce forte ca venéva sempe cchiù vicina e ca era sempe cchiù forte. 
E che paura! 'E llastre lucevano comme si steva 'o sole...
'A stanza era allummata 'a 'sta luce... 'E mure, 'nterra...   
FUJE VICIENZO!!
Arapette 'a porta e facette 'a scalinata comme si me stessero secutanno...
Sùlo quanno ascette fore, m'addunaje ca era 'n' acetileja (una lampara) ca steva pescanno...
Ma p'ammore 'e Ddio, signurì, je nun ce vaco cchiù! !




sabato 23 gennaio 2016

Ciro e Nanninella

Ciro a Riva Fiorita era il factotum.
Uomo di fiducia del commendatore Marino e suo autista personale, responsabile dell'ordine e dell'efficienza dello stabilimento balneare, era custode dell'enorme palazzo e dei tanti appartamenti che venivano affittati in estate.
Abitava al pianterreno con la moglie Nanninella, il figlio Nando, somigliantissimo alla madre, e le loro quattro belle figlie.
Possedeva un camion verde, aperto, col quale usciva la mattina presto ritornando con un carico di frutta e verdure che venivano esposte e vendute nell'androne del palazzo.
Specialmente Rosaria, la più piccola, dal sorriso dolcissimo e Nanninella, erano adibite alla vendita.

Nanninella aveva il suo daffare, tra marito e cinque figli.
Nei rari momenti di riposo la ricordo in piedi, sempre con sguardo vigile, le mani incrociate sulla pancia, sotto il grembiule.
Non le sfuggiva niente; ogni tanto alzava la voce con i ragazzini, ma era buonissima.

Il gran lavoro di Ciro iniziava quando, al tramonto, lo stabilimento chiudeva.
Doveva riporre tutti i tavolini e le sdraio rimaste sulla terrazza, spazzare la pista da ballo, le cabine, le docce, i vialetti, innaffiare le piante.
Con un'enorme scopa di saggina, riusciva a rimettere tutto a posto, senza mai lamentarsi.
Anzi, accompagnava i suoi gesti, canticchiando a bocca chiusa.
Durante l'inverno il suo lavoro si riduceva non poco.
Lo stabilimento chiudeva i battenti, gli inquilini si riducevano drasticamente.
Erano poche e famiglie che trascorrevano i mesi freddi vicino al mare, anche perchè le case erano molto piccole e poco attrezzate per contrastare l'umidità.

Il lavoro di Ciro, riprendeva con i primi accenni di tepore primaverile: riapriva il cancello dello stabilimento, spazzava di nuovo tutta l'area, rimontava le porte delle cabine assicurandosi che chiudessero, dava una mano di vernice dove necessario, puliva la fontana.
Poi, passava alle piante. Potava la bouganvillea che ricopriva la pista da ballo, e il glicine che cresceva dietro la buca dell'orchestra, e che faceva ombra tra le due file di cabine.

E per tutti, grandi e piccoli, era una gioia pensare che mancava poco e che un'altra "staggione" stava per arrivare.



giovedì 14 gennaio 2016

Il Capitano

Un'estate, a Giuseppone, comparve una persona che affascinò tutti.
Si chiamava Leonardo.
Prese in affitto la parte bassa della torre di Villa Volpicelli, che si raggiunge dalla scogliera, e vi impiantò un acquario.
Grande fu la curiosità che suscitò questa iniziativa e ancor più quest'uomo dalla faccia aperta, leale, dalla stretta di mano sincera, che si presentò insieme alla sua signora spagnola e alla loro bambina.
Si parlava molto di loro. Di lui si raccontava che era stato un cercatore di corallo in Sardegna, e che era uno dei figli della guardiana del faro di Palinuro. 
La moglie era piccolina, rotondetta, con grandi occhi neri, la pelle tesa e compatta, i capelli scuri tirati sul capo a formare una cipolla.
La bambina, biondina e delicata era, giustamente, la luce dei loro occhi. 
Il Capitano -così lo chiamavano- requisì Totonno, il figlio di Barbetta : da lui si faceva portare col gozzo alla ricerca di fauna e flora marina con le quali riforniva gli acquari di Genova, di Monaco e degli altri che gliene facevano richiesta. L'acquario che aveva costruito nella torre gli serviva da stallo.
Ogni tanto a noi ragazzi era permesso di varcarne l'ingresso e fu così che vidi per la prima volta le stelle marine rosse e blu, i cavallucci di tutti i colori, i pomodori di mare rossi e gialli, le uova di squalo gattuccio (!!) raccolte dal Capitano con i supporti ai quali erano state fissate.
Chi aveva idea che gli squali facessero le uova!
Vedemmo le gorgonie coloratissime, gli anemoni di mare e le meduse di tutte le specie, e i pesci ago, quei serpentelli che si mimetizzano tra le poseidonie. Leonardo chiaramente scendeva con le bombole, pescava fuori Trentaremi, ma si spingeva spesso a Procida e a Ischia.
Aveva un sesto senso. 
Riusciva a capire dalla stagione, dalla temperatura dell'acqua, dalla profondità alla quale si immergeva, dal tipo di fondale -roccioso o sabbioso- che cosa avrebbe trovato.
Totonno lo accompagnava, ammirato.
Quando ritornavano, riempivano le vasche, cercando di ricostruire l'ambiente adatto alle singole esigenze degli ospiti e lasciavano che alghe, pesci, piante, molluschi si riambientassero.
Successivamente le vasche venivano imballate con l'ossigeno e inviate in aereo agli acquari che ne avevano fatto richiesta. Questo lavoro splendido durò forse 4-5 anni. Poi il Capitano cambiò decisamente rotta. 
Aprì una pasticceria al Vomero e cambiò radicalmente mestiere.


Uovo di gattuccio ancorato a una gorgonia