martedì 27 novembre 2018

Villa Marino e Riva Fiorita

Con il solito garbo che lo contraddistingueva, più di una volta Gennaro mi aveva invitato a scrivere qualcosa su Riva Fiorita.
Mai avrei pensato di non fare a tempo ad accontentarlo.
Dedico quindi a lui questo ricordo, con grande commozione e tanto rammarico.

Un Parco sul Mare

Favorito da una posizione strategica, inserito in una rada con due spiaggette, incuneato fra le grotte del cantiere navale e le altre grotte-alveare che ospitavano marinai e pescatori, era il paradiso dei vacanzieri.
Due palazzoni sistemati ad anfiteatro affacciavano sui viali interni, sulla piazzetta, sulla scogliera con il suo trampolino, sugli spazi liberi che alternativamente venivano utilizzati per giocare a pallone, a pallavolo, o per andare in bicicletta.
Pochi erano gli "stanziali", perchè Posillipo era considerata lontana dalla città, ma in estate tutti gli appartamenti venivano affittati.
Ragazzi e ragazze di tutte le età erano liberi di giocare e di spaziare all'aperto, mentre le madri li tenevano d'occhio dai balconi.

A questo parco si affiancò uno stabilimento in muratura, con tantissime cabine, un fornitissimo bar, una pizzeria, un ristorante, una pista da ballo, terrazze sul mare, docce e un juke-box.
Gli fu dato un nome orecchiabile e simpatico, "Riva Fiorita".

Lo si raggiungeva in auto dalla tortuosa via Ferdinando Russo, o da mare, con le motobarche panciute e sicure che prima dell'attracco al pontile, si preannunciavano con la sirena.
Di mattina si pensava soltanto al mare (tuffi dal trampolino, sfide di nuoto, lotte tra piramidi umane, inseguimenti con i materassini). 

Tra le 13 e le 14 c'era il rito del pranzo, che si consumava sulle terrazze dello stabilimento. 
Grandi tavoli venivano posizionati tra gli alberi di agrumi, nei viali, fra le file di cabine. Pizzeria e ristorante funzionavano alla grande, anche se molte madri provvedevano a portare il cibo da casa.
L'atmosfera era rilassata, serena; tutti scherzavano, sorridevano, si conoscevano, si scambiavano le provviste per un assaggio.

Fino alle 16 era vietato tornare in acqua dopo le libagioni abbondanti e allora ci si industriava a fare passare il tempo.
Si giocava sulla spiaggia: si tracciava un solco piuttosto articolato trascinando per i piedi un ragazzino seduto sulla rena, e si costruiva un circuito. Il gioco consisteva nel fare avanzare una pallina di pomice (trovata a mare e smussata fino a farla diventare perfettamente rotonda) spingendola con il pollice e l'indice fino al traguardo. Se questa usciva dal solco, si ricominciava da capo. Chiaramente ognuno aveva la sua.

Un altro gioco consisteva nel fare un mucchietto di sabbia, piazzandovi al centro, all'impiedi, uno stecco di gelato. Bisognava togliere via, a turno, un po' di rena, con il taglio della mano. Chi faceva cadere il bastoncino pagava pegno.

Alle 16, l'arrembaggio!
Di nuovo tutti a mare, godendo gli ultimi raggi del sole che tramontava dietro Villa Volpicelli.
Quando i bagnanti che venivano dalla città tornavano a casa, lasciando libera la spiaggia, questa veniva immediatamente occupata dagli stanziali, che la utilizzavano per interminabili partite a pallone.
La sera, sulla terrazza dello stabilimento, suonava l'orchestrina dei fratelli Settesoldi.
Ci si riuniva per ascoltarli, per ballare.
Ogni tanto c'era una serata, nella quale si esibivano per gioco le persone che abitavano a Riva Fiorita.
C'era chi cantava, chi raccontava barzellette,  chi recitava poesie.

Ci fu anche un tentativo di trasformare lo stabilimento in night.
La location era perfetta: terrazza sul mare, alberi, bar, pista da ballo, fontana, aiuole fiorite e pergolati di glicine e bouganvillea.
Per un paio d'estati funzionò, fra i cantanti del momento si esibirono a Riva Fiorita Teddy Reno, Fred Bongusto e altri.
I ragazzini villeggianti entravano scavalcando dalle docce, finchè, scoperti, venivano scacciati senza complimenti. Altri meno intraprendenti, sedevano sulla scogliera, e ascoltando la musica immaginavano di trovarsi sulla terrazza che avevano di fronte.

Le macchine scoperte con signorine scollacciate e truccate, accompagnate da giovanotti spocchiosi, rappresentavano un diversivo per le tranquille famiglie che abitavano a Villa Marino, e che trascorrevano le serate sedute in piazzetta.
Gli ultimi eventi memorabili furono il concorso per l'ondina di SportSud e le gare di nuoto a mare.

Con la scomparsa del proprietario, il commendator Marino, man mano tutti gli appartamenti sono stati venduti. Riva Fiorita è diventata un gigantesco condominio dove ognuno detta legge.
Lo stabilimento non esiste più, e la struttura, una volta curatissima, è  ormai fatiscente.
Ma peggio ancora, non esiste più quell'armonia che accomunava, come una grande famiglia, tutti quelli che avevano la fortuna di condividere sole, mare, semplicità di vita, e serenità.


Riva Fiorita anni '60-'70 - Archivio Gennaro Improta

Riva Fiorita - Anni '60 - Archivio Gennaro Improta

Archivio Ludovico Mosca 

Archivio Ludovico Mosca 

Archivio Ludovico Mosca 

Archivio Ludovico Mosca 


venerdì 26 ottobre 2018

Il Palazzo Rosso

Appena varcato il cancello -tenuto su da due pilastri su uno dei quali è scritto "Villa" e sull'altro "Marino"- ci si inoltra verso quello che era il magnifico stabilimento di Riva Fiorita, ora purtroppo abbandonato e fatiscente.
Appena entrati, sulla sinistra, un palazzo di mattoni rossi con due torri merlate simula un castelletto sul mare. Lo stile eclettico del palazzo comprende degli oblò sulle torrette che limitano il terrazzo di copertura, mentre al secondo piano una veranda con finestre a sei archi corrisponde al salone dell'appartamento nel quale abitava il commendatore Marino.
Era questa una stanza molto vasta, logicamente panoramicissima, con un pavimento spettacolare di cotto antico molto chiaro, sul quale spiccavano dei disegni di una maiolica azzurra delicatissima, con scene di pescatori, di scogli, e di di barche.

Di fronte a questo "palazzo rosso" una gittata di cemento aveva creato una spianata che si raggiungeva salendo dei gradini.
In effetti, erano stati ricoperti dei grossi scogli neri le cui sommità, in alcuni punti ancora spuntavano dalla piattaforma.
Verso il mare quattro scalini piccolissimi portavano a una spiaggetta altrettanto minuscola, dove al massimo potevano starci due persone sedute, e forse tre in piedi.
Date anche le dimensioni ridotte,  era una spiaggetta molto esclusiva, frequentata spesso dalla bella e cara signora Fabris, dalla signora Totò Avéta, che scendeva con giacca smanicata e turbante relativo di spugna bianca o gialla, che faceva risaltare la sua abbronzatura scura, color monaca di mare,
da Vera Nandi, attrice e caratterista di film napoletani, e poi da Luisa Conte, che portava con sé il cagnolino ammaestrato che recitava nella compagnia.

Non era stata ancora costruita quella "litoranea" sopraelevata che ha coperto e fatto scomparire la spiaggetta, mettendo fine ai continui allagamenti della strada che tanto ci piacevano.
Durante le mareggiate, in inverno. il mare grosso infatti si infrangeva contro la bassa piattaforma; le onde la scavalcavano e allagavano la strada fino a sotto il palazzo rosso.
Il mare defluiva poi lentamente attraverso le feritoie che erano state lasciate tra gli scogli, mentre altre ondate sopraggiungevano. Anche se si passava a piedi scalzi si rischiava di essere presi in pieno da una bordata d'acqua.
Il palazzo rosso sul mare, con quella sua loggetta con gli archi, con un po' di immaginazione ci faceva sentire come i veneziani con l'acqua alta.
Successivamente, quando il mare si calmava, sulla strada si trovavano alghe verdi, qualche foglia di poseidonia, un po' di sabbia qua e là, che permetteva finalmente un guado, e spesso anche piccoli mazzoni e bavose che ci affrettavamo a rigettare in mare.
A volte anche qualche granchio spiritecchio, che spaventatissimo correva di traverso, alla ricerca di una via di fuga, dopo l'avventura che questa mareggiata gli aveva fatto vivere.

 Dedicato a Loretana e Giovannella, Annamaria Esposito, Lello e Roberto.

Mareggiata a Giuseppone a Mare - Archivio Istituto Luce

sabato 1 settembre 2018

Settembre

Per me, era il mese più bello, perchè ci riappropriavamo del "nostro" mare.
Le vacanze per i bagnanti che venivano dalla città erano terminate con la fine di agosto.
Già dal 20 in poi, man mano l'affluenza ai lidi scemava, gli ombrelloni sulle spiagge erano sempre di meno, un'unica motobarca faceva soltanto due corse.
Non si udivano più il vociare allegro dei bambinetti che giocavano con i secchielli, le formette, i salvagenti e i canottini.
I villeggianti lasciavano a malincuore le case e gli operai del cantiere avevano il loro daffare per mettere le imbarcazioni al riparo nelle grotte.
Con l'avvento di settembre tutti i padri tornavano al lavoro, e i bambini si preparavano al ritorno a scuola.
Non c'era più quel passaggio continuo di barche, motoscafi, vele.
Il silenzio che ne seguiva era rotto solo ogni tanto dal motore di un gozzo lontano.

La natura dava allora il meglio di sè. 
Il cielo diventava più azzurro, il mare si increspava luccicando, il verde della collina prendeva delle sfumature che facevano meglio risaltare i colori chiari delle ville seminascoste fra gli alberi.
L'aria era più limpida e luminosa, per cui si aveva l'impressione che qualcuno avesse passato una mano di vernice fresca sul golfo e sulla costa.

Allora, prima di trasferirci definitivamente anche in inverno a Posillipo, toccava anche a noi, con gran dolore, lasciare casa.
La scuola iniziava attorno alla fine di settembre, ma mia madre trascinava la nostra villeggiatura fino al quindici di ottobre dicendo (giustamente!) che altri 20 bagni non avrebbero inficiato i nostri studi, ma avrebbero fatto bene alla nostra salute.
Tornavo quindi a scuola ancora abbronzata, guardata con malcelata invidia dalle mie compagne, con grande disapprovazione delle suore del Nazareth, con rassegnazione dalle maestre.

Il nostro medico, il carissimo dottore Verde, amico di famiglia e gran brava persona, ogni estate suggeriva ai nostri genitori di propinarci un purgante, visto che avremmo dovuto affrontare un "cambiamento d'aria" (dalla città a Posillipo!) , e ci prescriveva anche un antitifico in pillole che si prendevano una al giorno per una settimana.
Il piacere di andare in villeggiatura ci faceva ubbidire, ma il problema si riproponeva con il successivo "cambiamento d'aria", quando dal mare dovevamo tornare in città. Ma allora si ragionava così! E questo medico, al quale ho voluto un gran bene, non poteva immaginare che adesso che si vola in giornata da un continente all'altro, la sua teoria era certamente eccessiva.

L'anno scolastico era diviso in tre trimestri.
Alla fine di ogni trimestre, c'era l'adunata.
Tutte in divisa blu, con i guanti bianchi, in piedi in una grande stanza -che in genere era il refettorio- (dove chi faceva il doposcuola mangiava ascoltando la vita dei santi, letta da una suora che sedeva su una sedia come quella degli arbitri del tennis), ricevevamo le pagelle.
Eravamo chiamate dalla Madre Superiora, una donna anziana, molle, sgradevole, bassa e bianchiccia.
Sembrava un bignè sfatto. Portava gli occhiali rotondi, senza montatura, aveva i denti piccoli e aguzzi come quelli dei pescecani, e i guanti di lana neri che le lasciavano i polpastrelli nudi per sfogliare il vangelo. (così diceva lei!).

Prima della consegna delle pagelle, c'era la premiazione delle alunne più meritevoli, le quali in genere erano sempre le stesse.
I premi consistevano in una fascia di gross-grain che veniva posizionata su una spalla e allacciata morbidamente in vita, un nastro azzurro (io dicevo come gli ufficiali di picchetto) rappresentava il premio di condotta, un nastro giallo indicava il premio di profitto, quello rosso era il premio di francese.
C'erano poi le note di biasimo, scritte con inchiostro nero su un cartellino grigio, e gli attestati di assiduità. 
A queste ultime due, io ero abbonata. 
Per le note di biasimo -correvo nei corridoi, parlavo nelle file, facevo ridere le compagne, dimenticavo i guanti bianchi, etc.- , per il premio di assiduità, tolti i primi giorni di scuola, non sono mai mancata una volta alle lezioni.
Durante l'anno scolastico tutte si ammalavano e si assentavano qualche giorno, e io le invidiavo, ma mia madre, così "ispirata" a fine stagione, non ammetteva che io facessi più assenze.
Ed ecco il premio di assiduità!

Un'unica volta ho ricevuto il nastro rosso di francese, ma siccome dopo l'adunata c'era la ricreazione, e vedevo queste mie compagne pluridecorate, immobili, senza osare muoversi, guardarci giocare a fulmine, a palla prigioniera, a campana, me la tolsi.
E cosa non successe quando a fine giornata un'altra suora venne a ritirare le fasce e io non sapevo che fine avesse fatto la mia!
Provvidenzialmente il nastro ricomparve, rinvenuto da una bidella sulla punta di un cancello del cortile e... non fui premiata mai più!

Posillipo dall'alto e piena di verde negli anni '50-'60 - dall'archivio di Gennaro Improta 

Vista di Posillipo da mare negli anni '60-'70 - dall' archivio di Gennaro Improta (che ringraziamo) 

Posillipo - dall'Archivio Gennaro Improta 

mercoledì 8 agosto 2018

Bastiano

Scendeva alle 12, con il suo trerrote, indossava un berretto di quelli blu e bianchi con la visiera, il cordoncino e l'ancora, tirava fuori da una tasca il fischietto, e così, travestito da guardamacchine, prendeva servizio fuori al ristorante.
Avrebbe voluto essere chiamato Sebastiano, ma più semplicemente veniva chiamato da tutti Bastiano.

Non particolarmente alto, ma massiccio, con una faccia da brava persona.
Era un brav'uomo infatti, ingenuo e un po' credulone.
Ascoltava attentamente le scempiaggini e le assurdità che per gioco gli venivano raccontate, sgranava gli occhi per la meraviglia ed era pronto a ripeterle a sua volta.
Si dava un gran daffare a dirigere il traffico nella piazzetta di Giuseppone, ed era sempre gentile con tutti, arrotondava le sue entrate vendendo fichi d'india e fiori per le coppiette.
Li teneva in un vaso sulla sua Ape verde bottiglia, insieme a varie bombolette spray di vernice colorata, e, nascondendosi tra le barche, li dipingeva.
Così si presentava con garofani blu, nasturzi rossi, margherite verdi e altri fiori dai colori inverosimili che probabilmente avrebbero anche stinto.

A fine stagione il trerrote era occupato da una grossa pentola che poggiava su un fornello alimentato da una bombola a gas. Bastiano vendeva le spighe bollite, sempre alternando il suo lavoro di guardiamacchine a quello di ristoratore.
il suo richiamo era "Vòlle 'a vollanca, vòlle!". 
Quando non riusciva a venderle tutte entrava dal cancello di Riva Fiorita dov'era accolto e circondato da ragazzini che mordendo e succhiando le spugne che avevano comperato, puntualmente gli facevano il verso, e a loro volta gridavano il suo "volle 'a vollanca, volle!".
In inverno, le spighe erano sostituite dalle castagne arrostite su un braciere, e il loro odore si diffondeva mischiandosi al profumo del mare.
Il ristorante, allora, procedeva a tutto ritmo.
Era un locale molto in voga, frequentato da attori e calciatori.
Soltanto quando faceva molto freddo, o mareggiava, e di conseguenza gli avventori erano pochi, Bastiano mancava all'appello, ma questo accadeva pochi giorni all'anno ed in quei giorni la sua assenza era tangibile.

E ancora adesso, dopo tanti anni, svoltato l'angolo alla fine della discesa, ci si meraviglia di non vederlo correre avanti alla macchina, roteando le braccia e indicandoti dove lasciarla...



Riva Fiorita in una cartolina degli anni '50 - Foto dall'archivio di Gennaro Improta

Riva Fiorita
Riva Fiorita in una cartolina degli anni '50 - Foto dall'archivio di Gennaro Improta





domenica 10 giugno 2018

Don Liborio, il cane e Nerone

Come tanti altri personaggi di questi miei piccoli ricordi, anche Don Liborio era un pescatore.
Scendeva dal Casale con il suo fido cane, e prendeva il pesce, non per venderlo ma per la sua sopravvivenza.
Il cane era per lui come un figlio: lo seguiva dappertutto, capiva tutto, non gli era mai d'intralcio.
Quando tornavano da mare prendevano l'ultimo sole sul muretto di Giuseppone, prima di affrontare la salita che li avrebbe portati a casa. 
Il cane gli si appoggiava addosso, e don Liborio, con garbo, gli diceva : "Togliti, ca me liéve 'o sole" , e immediatamente, a malincuore, questo si spostava e cambiava posizione.
Una volta ci fu una signora, che abitava a Giuseppone, che prima di ritirarsi aveva appoggiato a terra due grandi buste con la spesa della settimana, e si era soffermata a parlare con dei conoscenti.
La tentazione per il cane fu fatale!
Da questi contenitori, secondo lui abbandonati, venivano fuori odori di mortadella, salumi, formaggi, carne. 
Fu un attimo.
Tutte le provviste vennero fatte fuori. 
La signora, furibonda, cominciò a inveire.
Don Liborio, un po' mortificato, offrì il pesce che aveva pescato come risarcimento (di più non aveva).
Se ne sentì di tutti i colori, ma perse le staffe quando il suo cane fu insolentito e gli fu augurato il male.
E allora, preso coraggio, rispose alla signora : "Signò, si vuje tenisseve 'e cerevella 'e 'stu cane, stésseve all'università!" . 
E su questa frase, diventata da quel giorno storica a Giuseppone, la questione giocoforza si concluse.

il Villaggio

Quando le case erano rade, e collegate da un sentiero impervio che si interrompeva più volte, Posillipo era e fu chiamata Villaggio (come recitava una vecchissima targa presente a Sermoneta).
Con la creazione della strada voluta da Gioacchino Murat e completata nel 1814, man mano il villaggio divenne un quartiere campagnolo e marinaresco.
Alle rustiche masserie si affiancarono quindi nel tempo ville imponenti, palazzotti signorili e successivamente qualche villino liberty, specie nei rioni Carelli, Spinelli e al Casale, in un tripudio di verde e mare e natura prorompente.
I pini, le palme, gli alberi pregiati delle ville, si alternarono alle campagne ricche di agavi, fichi d'india, ulivi, aranci e viti. Sulla costa tante grotte, anfratti, spiaggette, erano intervallate da lunghi scogli di tufo piatti, le chiane, ricoperti da alghe verdi, cozze e uva di mare.
E in questo luogo paradisiaco hanno vissuto fino agli anni '70 i posillipini veraci: gente semplice, affabile, accomodante, rispettosa, incline al sorriso.

La città in linea d'aria era vicinissima, ma lontanissima dal modo di vivere di questi indigeni, che godevano appieno del mare, del vento, dell'esaltante visione del golfo in burrasca, delle cime degli alberi che ondeggiavano sotto la strada.
In qualsiasi periodo dell'anno, nei momenti liberi, c'era sempre chi andava a pescare.
I più giovani attraversavano la strada con una maglietta sul costume o con la muta, gli anziani, più pazienti, sedevano sugli scogli armati di canna da pesca e... aspettavano.

Il ritmo della vita era lento; la natura meravigliosa contribuiva a rasserenare gli animi con l'offerta della sua visione felice.
Non esistevano barriere sociali; si era tutti amici fraterni, senza nessuna differenza di classe.
I posillipini (di allora) erano tutte persone perbene, rispettose di regole non scritte : convivevano senza prevaricazioni condividendo l'incanto di questo estremo lembo del golfo che possedeva caratteristiche così diverse dal resto della città.
L'infanzia e la prima giovinezza dei ragazzi di Posillipo è stata felice e spensierata.
Si può senz'altro dire che sono stati anni vissuti senza sprecare nulla.
Il Rione Carelli e Piazza San Luigi, in particolare, erano una fucina di atleti.
Tantissimi praticavano il canottaggio e altrettanti erano i velisti. Ma c'erano anche i nuotatori, i pallanuotisti, i pescatori subacquei, che incanalavano nello sport le loro energie in eccesso e la loro gioia di vivere.
Tutti ragazzi sereni, semplici, sani e tanto diversi dai loro coetanei cittadini.
Poi, con la morte nel cuore, chi per lavoro, chi perchè si è sposato, chi per necessità, essendo lievitati i prezzi delle case in affitto, i posillipini - tranne pochi superstiti - hanno dovuto allontanarsi un po' tutti cedendo il posto ai "nuovi arrivati", che non sembrano apprezzare appieno la fortuna di vivere in un posto così particolare.

Posillipo ci ha dato tanto, ma ci ha tolto la possibilità di essere felici altrove.

Immagine da galleriefotocrafiche.com

Il Casale di Posillipo in un'immagine degli anni '50

martedì 30 gennaio 2018

I primi bagni

Una volta l'estate non arrivava così, di botto.
L'aria si riscaldava ogni giorno un po', in modo graduale, diventando sempre più tiepida, leggera, e profumata.
A Posillipo, il segnale dell'inizio dei bagni era rappresentato dalla fioritura del glicine.

Ai primi di marzo tutti cominciavamo a scalpitare; alcuni, inseguiti e minacciati dalle madri, indossavano già le magliette estive. 
Alla domenica e nei giorni di festa chi aveva la macchina si recava sulla spiaggia di Licola, perchè sapeva che la sabbia -sempre aborrita in condizioni normali- avrebbe favorito rapidamente l'abbronzatura da ostentare prima degli altri.
Si tornava a casa arrossati dal sole, con questa sabbia sottile, odiosa, appiccicata al costume e ai teli di spugna umidi.

Il richiamo del mare era irresistibile: faceva parte della nostra natura, della nostra vita.
Avevamo smesso di fare i bagni da pochi mesi, e non vedevamo l'ora di immergerci di nuovo.
Si tiravano fuori i costumi, si riparavano gli zoccoli di legno sostituendo i chiodi arrugginiti che fermavano la fascia di cuoio, e si era... pronti.

C'era chi aveva la fortuna di avere il mare sotto casa, e chi lo ammirava, vicinissimo, dai balconi e dalle finestre.
Esisteva una tacita gara a chi a inizio stagione aveva fatto più bagni. 
Nell'attesa dell'avvio ufficiale, si osservavano i preparativi dei marinai e dei pescatori, nostri insostituibili e inconsci maestri di vita, per la serena semplicità e per la filosofia spicciola che contraddistingueva le loro esistenze. 
Eravamo affascinati dal loro rispetto per il mare e per la natura.

Ai profumi della primavera, si sommavano quelli della vernice e dell'antivegetativa che veniva data ai canotti girati a pancia in giù sulle spiaggette e sugli imbarcatoi.
I pescatori riparavano le reti in riva al mare, godendo del tepore primaverile, e raccontavano di qualche pesca miracolosa che speravano di ripetere.

I ragazzi di Posillipo sfoggiavano un'abbronzatura dorata che li distingueva da quelli di città, rendendoli riconoscibilissimi.
Alla fine di aprile, i primi colpi di maglio assestati con grande maestrìa, decretavano che l'estate era finalmente in arrivo. Venivano montati i pali e le tavole ed era uno spettacolo veder crescere così rapidamente quelli che sarebbero stati lidi su palafitte.

Immagine da NapoliFlash24.it

Immagine da NapoliFlash24.it


martedì 16 gennaio 2018

Il Comandante

Achille Lauro, armatore, sindaco di Napoli, presidente della squadra di calcio, deputato, senatore, proprietario di una emittente televisiva, editore, fu tanto amato quanto discusso.
Figlio di Gioacchino, armatore di Sorrento e proprietario di due velieri, a tredici anni per punizione fu imbarcato dal padre in qualità di mozzo, avendo circuito la donna di servizio della famiglia.
Probabilmente fu allora che si innamorò del mare.
Tornato in casa, convinse pian piano il padre a comprare vecchie navi e a ripararle per metterle in condizione di trasportare le merci nel Mediterraneo.
Gli affari cominciarono a rendere bene, le rotte si allungarono sempre di più, i porti di carico e scarico divennero sempre più numerosi e lontani fra loro. Nel tempo la flotta raggiunse la considerevole cifra di 57 navi, e Achille Lauro, che per le sue spontanee esternazioni fu chiamato da Mussolini "Pittoresco uomo di mare", divenne il più forte armatore d'Europa, prima che comparissero i più famosi armatori greci.
Con una mossa a sorpresa permise ai dipendenti della sua flotta una compartecipazione alle sue attività e qui nacque il mito del comandante, con un grosso consenso di stampo populista.
Durante a guerra fu fatto prigioniero e internato a Padula. Una buona parte delle navi della sua flotta fu affondata durante i bombardamenti.
Dopo la liberazione gli inglesi gli restituirono le navi sequestrate e gli concessero la possibilità di acquistarne alcune Liberty.
LAuro si dette un gran daffare a riparare le navi affondate e la flotta, anche se decimata, ripartì, passando poi da mercantile a passeggeri.

Si dedicò anche alla politica, fondando il partito monarchico (Stella e Corona), il cui intento era quello di indire un referendum per fare ritornare il Re (e meno male che non ci riuscì!).
Si racconta che per la campagna elettorale abbia speso 500 milioni di lire di allora.
La leggenda narra anche della donazione di pacchi di pasta, di scarpe da riappaiare -una prima, l'altra dopo-aver avuto la certezza del voto.

Fu presidente del Calcio Napoli.
Acquistò Jeppson, centravanti svedese pagato la straordinaria cifra di 105 milioni, prezzo record per un trasferinento di allora,

Fu sindaco di Napoli dal 1951 al '58.

Gli si riconoscono la Fontana del Carciofo in Piazza Trieste e Trento, i sottopassaggi inizialmente eleganti e l'arredo urbano della piazza medesima, con i grandi vasi di azalea nei quali erano infisse delle gabbie con i pappagallini (anche se questo durò poco).
In una notte, con un blitz, fece estirpare tutti i lecci esistenti e successivamente cambiò volto alla Piazza Municipio, modernizzandola con fontane, aiuole e alberi pregiati.
Ogni mattina i giardinieri intervenivano sull'aiuola-datario, che era diventata un cult per le foto degli sposi, aggiornando numero e mese.

Achille Lauro fu in seguito deputato e poi senatore per il MSI.
Acquistò il giornale Roma e il palazzo di Vetro di fronte al porto, e diventò editore, facendo concorrenza al Mattino.
Successivamente si improvvisò, ma questa volta senza successo, produttore cinematografico.

Comperò la splendita villa Peirce a Posillipo e ne fece la sede dell'emittente televisiva Canale 21.
Possedeva un tre alberi meraviglioso, il Karama, ormeggiato a Mergellina, e in estate lo si vedeva solcare il golfo.
Durante il suo mandato, sostenuto da una pletora di costruttori, elargì licenze di costruzione che dettero inizio a una trasformazione edilizia che fu simbolicamente descritta da Francesco Rosi nel film "Le mani sulla città" e le cui irrimediabili conseguenze sono purtroppo fin troppo visibili, specie dal mare.
Discusso ancora oggi, questa sua vita così piena e avventurosa, si concluse nel 1982.