mercoledì 28 ottobre 2020

Pietrasalata

Non so chi per primo abbia  pensato di darle questo nome semplice, scontato e simpaticissimo.
Pietrasalata è uno scoglio noto a tutti i posillipini, ed è l'unico resto affiorante di un'antica villa romana.
Tutti noi bambini, e poi ragazzetti, ci allungavamo con i canotti di gomma e poi con le barche fino a questa " pietra" in mezzo al mare. 
A volte raggiungerla era un po' faticoso, perchè un gioco di correnti ci respingeva e ci impegnava a remare con più forza. Quando la raggiungevamo ci sembrava di aver doppiato Capo Horn.
D'altra parte Pietrasalata ci offriva tanto.
A parte la sorgente di acqua minerale (una delle tante a Posillipo) e le cozze squisite, consideravamo la vasta area che va appunto da questo scoglio alla scogliera di villa Rosebery come la nostra casareccia barriera corallina.
Pinterrè coloratissimi, cavallucci marini, mazzoni, pesci ago, anemoni, sparaglioni, vope, affollavano le chiane sommerse e i ruderi della villa, e trovavano riparo nella vasta vegetazione di alghe e uva di mare.
Anche i guarracini erano presenti. Si riconoscevano per il colore scuro e per le codine doppie. La loro era presenza era quantomai gradita, conferma della salubrità dell'acqua, vista la loro impossibilità di sopravvivenza in un mare inquinato.

Da ragazza ricordo di essere scesa una volta con le bombole e di avere scorto con emozione sul fondo pochi centimetri di un avanzo di mosaico, a testimoniare il ricordo dell'antica villa romana che si ergeva su quelle chiane.
A Posillipo si è sempre raccontato di un incrociatore che si incagliò nottetempo sugli scogli di Pietrasalata, e in effetti, essendo le secche quasi affioranti, volendo procedere anche in barca in questo tratto di mare bisogna conoscere un particolare tragitto da fare per non fracassare chiglie, eliche e fuoribordo.















lunedì 28 settembre 2020

Il Mausoleo

L'imponente cupola che si staglia contro il cielo della collina di Posillipo appartiene al Mausoleo, sacrario dei caduti per la Patria.

E' questa una costruzione voluta da Matteo Schilizzi, imprenditore livornese residente a Napoli, il quale voleva farne una tomba per sé e la sua famiglia. Certamente la mania di grandezza non gli mancava!

La costruzione fu iniziata nel 1883. 
I lavori imponenti furono sospesi nel 1889 e soltanto trenta anni dopo il figlio del costruttore completò il progetto iniziale.
Nel 1921 il comune di Napoli, che cercava un reliquiario per i caduti della guerra, ne propose la vendita e lo acquistò dagli eredi Schilizzi. 

E' questo in Italia l'unico cimitero di guerra ubicato in una città. Vi riposano gli eroi della prima e della seconda guerra mondiale, e ospita anche alcuni caduti delle Quattro Giornate di Napoli.

Il Mausoleo si raggiunge attraverso un lungo scalone, ai lati del quale due viali paralleli confluiscono in un ampio spazio sul quale poggia la chiesa. 
I viali sono ombreggiati da pini, cipressi, ed eucaliptus, e il profumo intenso delle loro essenze e delle loro resine -che ancora percepisco mentre scrivo- predispongono ad una sorta di purificazione nel raggiungere il luogo sacro.

Lo stile del mausoleo è particolare, ed emana una profonda suggestione e un fascino speciale.
Si tratta di una costruzione strana, maestosa e severa, molto eclettica e con stile egizio. 
All'esterno pietra scura, palmizi e cariatidi in bronzo. 
All'interno colonne tanto marmo bianco e grigio, intervallato da cornici di piperno decorate con palme e fiori di loto. 
Il soffitto in mosaico veneziano dona luce a tutto l'ambiente del vano absidale, mentre la calotta interna è dipinta con stelle dorate di ispirazione islamica. 
La grande cupola è invece ricoperta da formelle di rame dorato.

Quando ero ragazza frequentavo spesso il Mausoleo. 
La messa, officiata da un cappellano militare, si celebrava alle 11. 
Ci andavo con mio padre, e partecipavo davvero a questo rito, come d'altronde accadeva a tutti i presenti. L'imponenza di questo sacrario che però all'interno è ampio e luminoso, mette soggezione insieme a una dolce tristezza nel leggere di tanta gioventù sacrificata.

Ricordo una celebrazione solenne che si svolgeva annualmente in occasione del 4 novembre.
Nella giornata delle forze armate, drappelli di carabinieri, bersaglieri e altre armi, in rappresentanza dei caduti, prendevano posto in chiesa alle spalle dei parenti degli eroi ai quali si rendeva onore. 
Generali, colonnelli e graduati in alta uniforme, pieni di medaglie e decorazioni, restavano in fondo alla chiesa tra bandiere, labari e gagliardetti.
Venivano deposte sull'altare corone e cuscini di fiori con il nastro tricolore. Nei momenti solenni della messa, un comando secco e imperioso gridava "AT-TENTI!" e i tacchi di tutti i soldati risuonavano all'unisono.

Si usciva dal Mausoleo con un vago senso di commozione, che veniva però mitigato dalla visione che si godeva dall'ampio spazio prospiciente l'ingresso del Sacrario.
Da quella prospettiva, infatti, al di sopra dei pini di villa Caflish , l'isola di Capri, illuminata dal sole, sembra galleggiare nel golfo e non si può essere tristi a lungo di fronte a tanta bellezza.

Foto da "Posillipo", Renato de Fusco -Electa Nspoli

foto da "Posillipo nell'800" - Valentina Gison - Clean Edizioni



foto da "Posillipo nell'800" ,Valentina Gison - Clean Edizioni










giovedì 24 settembre 2020

Giovannina e il pignatiello

A dispetto del suo nome, Giovannina era un donnone. 
Sempre vestita di nero, con degli abiti fin sotto il polpaccio, le pantofole di feltro nere anch'esse, i capelli corvini lunghi e raccolti a crocchia sulla nuca, faceva parte del paesaggio di Giuseppone.
Era la sorella del proprietario del ristorante.
Al piano terra c'era il suo piccolo balcone, alle spalle della fontanella alla quale ci siamo sempre fermati tutti per bere, per sciacquarci i piedi, addirittura a volte da ragazzini accovacciandoci per fare la doccia. 
Era lì, perennemente affacciata, con il rosario in una mano e un bicchiere vuoto nell'altra, occupando con la sua mole tutta la finestra che le faceva da cornice.
Chiamava chiunque passasse di fronte al suo balcone, e garbatamente lo pregava di riempire con l'acqua della fontana il bicchiere o a volte anche una bottiglia.
Mi voleva bene, e gliene volevo anche io.
Una volta mi regalò in gran segreto un pignatiello di ceramica (era uno di quelli nei quali al ristorante Giuseppone venivano serviti i polpetielli) che nel suo ricordo conservo ancora gelosamente.




domenica 28 giugno 2020

Sembra Brutto

Quando ero ragazzina l'educazione dell'epoca consisteva in una serie infinita di divieti (non appoggiare i gomiti sul tavolo, non parlare con il boccone in bocca, non interrompere quando uno parla, non fischiare "perché é una cosa da carrettieri", non parlare a bassa voce, non chiamare nessuno dalla finestra, etc.) e di raccomandazioni (stai seduta composta, raddrizza le spalle, cammina dritta, chiedi il permesso per alzarti da tavola, bussa alla porta dei nonni prima di entrare da loro)... e tante altre.

Sono vissuta così, in questa grande casa, con mio fratello, i nostri genitori e i nonni materni, la bisnonna materna e la nonna paterna, più una signorina anziana che era venuta a vivere da noi dopo essere rimasta sola.
In effetti era la figlia di una maestra che aveva dato lezioni a casa a mia nonna, quando lei era giovane. 
Ritornando all'educazione, tutte queste limitazioni non mi pesavano più di tanto, perchè ripetute all'infinito da tutte queste persone di famiglia, facevano ormai parte del mio DNA.
Sono cresciuto con queste due maledette parole : "Sembra Brutto".
Tutto sembrava brutto.
Che io volessi rifiutarmi di entrare in salotto a salutare gli ospiti dell'uno o dell'altro dei miei parenti, che essendo stata invitata ad una festa dalla figlia odiosa di un'amica di mia madre volessi trovare una scusa per non andarci, che non volessi andare a una recita o un concerto di beneficenza...
"Sembra brutto".
E così ero costretta ad accompagnare mamma dalle sue amiche, e giocare con delle bambine insipide -probabilmente costrette a loro volta- perchè anche io ero stata invitata, e sembrava scortese non andarci.
Ho accompagnato mio padre con tanto affetto, con tanto amore, dappertutto.
La domenica, dopo la partita alla radio, uscivamo insieme, facendo chilometri a piedi.
Ed ero felice, ma questa passeggiata terminava puntualmente con una per me più che sgradevole visita, che papà faceva ad un vecchio, trasandatissimo marchese, che abitava a Viale Elena in una casa piena di cineserie e al quale era inspiegabilmente legato.
E anche papà mi diceva: "E' un uomo anziano, solo e malandato, se non vado a trovarlo... Sembra brutto!".
E dagli!
Ancora adesso, dopo tanti anni, memore di questo dannato insegnamento, mi faccio scrupolo di tante cose.
Ad esempio non sono mai riuscita a mandare a quel paese qualcuno, ad inveire quando era il caso (e ce ne sono state di occasioni!), a far tacere qualcuno alzando la voce...
Quanto mi ha condizionato quel "sembra brutto"...


sabato 13 giugno 2020

La piazzetta di Riva Fiorita

In corrispondenza con l'arrivo della seconda motobarca del mattino compariva sulla spiaggia il venditore di cocco. Poco avvenente, con i grandi occhi neri sporgenti dalle orbite, trascinava i piedi nella sabbia e passava tra gli ombrelloni con il suo secchio zincato nel quale erano risposti pezzi di cocco di varie misure.

"E' arrivato Coccobbello, cocco di mamma!" - diceva sorridendo - ed era così garbato che ti sentivi in dovere di acquistarne almeno un pezzo.
Verso le 12, dalla punta della scogliera, si vedeva spuntare una barca grigia sulla quale due pescatori remavano in piedi con un lungo remo ciascuno.
Erano fratelli, avevano i capelli bianchi e venivano da Mergellina.
Avevano un fare piuttosto arrogante, che niente aveva a che vedere con i nostri pescatori posillipini.
Approdavano appena sulla spiaggia e immediatamente la loro barca era presa d'assalto dai villeggianti e dai bambini.
Erano chiamati "i gioiellieri", perchè sì, è vero che portavano il  pesce ancora vivo, ma se lo facevano pagare profumatamente.
Riuscivano a vendere tutto dopo estenuanti trattative. In genere gli acquirenti erano le persone di città, che ritornavano a casa con le motobarche, mentre i locali comperavano il pesce da Luigi del Casale o da Umberto Cafarelli, per affezione e per una forma di rispetto, oltre al fatto che erano meno esosi.
I bambini, intanto, affacciati sulla barca, osservavano con curiosità i pesci vivi conservati nelle tinozze, e si accorgevano che nell'acqua sotto i paglioli giaceva sempre a pancia all'aria qualche pinterrè, qualche mazzone, qualche bavosa, e alcuni sconcigli che sarebbero serviti come esca nelle nasse che riposavano a prua ancora gocciolanti.

A parte lo stabilimento, Riva Fiorita era un grosso condominio, paragonabile ad un rione.
C'erano gruppi di tutte le età, si conviveva in armonia e la piazzetta sul mare era il luogo d'incontro.

Al mattino, una coppia aveva requisito un pezzetto della rotonda, ed esponeva la sua mercanzia.
La moglie era una signora in carne, ben piazzata, il marito, snello e in canottiera con i baffetti neri, portava una paglietta traforata. Vendevano zoccoletti laccati per bambine, infradito, e quei sandaletti superga in tela rossa o blu bordati con il cordoncino bianco e con le suole di gomme. (Penso che li avremo portati tutti!).
Inoltre vendevano secchielli, formine, palette e salvagenti gonfiabili.
E quest'emporio improvvisato era sempre affollatissimo.

Sempre su questa rotonda aveva accesso in un giorno stabilito della settimana un furgone che vendeva formaggi, salumi, sottoli vari (melanzane, carciofini, funghi) sottaceti etc.
Il venerdì arrivava invece il camioncino dell'Algida, di color beige, con su dipinti i quattro orsetti che reclamizzavano i gelati: Arangelo, Limongelo, Cappuccio (attuale Coppa del Nonno) e Ciocla.
Ogni orsetto era rappresentato mentre teneva in una zampa uno di questi gelati con lo stecco.
Si chiamavano gelati da passeggio.

Questo camion riforniva il bar di Riva Fiorita, e si alternava con quello rosso e giallo della Coca Cola (la cui riproduzione abbiamo avuto tutti, o abbiamo sognato di avere tra i nostri giocattoli) che trasportava le cassette scoperte e ordinate, tutte in fila, con il loro carico di bottigliette in vetro, che conservavano il liquido scuro.

La sera, in estate, quando i mariti ritornavano dal lavoro, dopo aver cenato, tutti scendevano dalle case per sedersi vicino al mare e prendere il fresco.
E allora la rotonda diventava come una piazzetta di paese dove si pettegolava bonariamente.
E quando le cicale finivano finalmente di frinire, iniziava nelle aiuole il delicato concerto dei grilli.
Napoli lontana brillava di luci, e quando c'era, anche la luna ci metteva il resto con la sua scia brillante sul mare.
E allora l'incanto e la pace erano completi.


Spiaggetta di Riva Fiorita - anni '70


Riva Fiorita - Archivio Gennaro Improta