venerdì 8 dicembre 2017

Il bar Vegezio

Nel 1951, la bottega che dagli anni '30 e anche prima aveva sempre ospitato un forno a fascine, cambiò decisamente volto e divenne una splendida panetteria.
Il proprietario del forno, il signor Valerio, da tutti però chiamato don Antonio, aveva fatto le cose in grande.
La porta d'ingresso era incorniciata tra due ampie lastre di marmo, che poggiavano sul muro esterno e sulle quali spiccava a lettere cubitali la scritta VEGEZIO, cognome simpatico, musicale, orecchiabile, e insolito per Posillipo.
L'interno era luminoso e ordinatissimo, l'accoglienza cordiale, in pane -in tutte le sue varietà- squisito.

Il locale ebbe successo, tanto che l'anno seguente aggiunse una nuova offerta alla clientela, e diventò il bar-panetteria Vegezio. Si occupava dell'amministrazione il figlio del signor Valerio, Salvatore, mentre l'altro figlio -l'infaticabile Strato- quando non era in negozio, era addetto alle consegne.
Al banco c'era un uomo massiccio, bruno, con dei grandi baffi neri.
Naturalmente, e conseguentemente, venne da tutti chiamato Baffone.
Baffone, come d'altra parte i fratelli Vegezio, era un gran lavoratore: gentile, veloce, sorridente e rapido, si divideva fra l'espositore del pane, la macchina del caffè, le vaschette della gelateria, la piccola vetrina dei dolci.
La mattina presto i pescatori passavano a prendere il caffè (in genere c'era sempre qualche caffè pagato, ma se anche non ci fosse stato, il signor Salvatore, nella sua generosità, avrebbe bluffato e l'avrebbe offerto lui),
Più tardi, i bambini della Cimarosa, e i ragazzini del Della Valle, prima di andare a scuola, passavano a comprare i bollini con la marmellata di mirtilli e i dolci di pasta frolla al limone per i quali la pasticceria era famosa.
Intanto il signor Strato distribuiva il pane con il camioncino.
Quando scendeva per rifornire il ristorante, giù a Giuseppone, il nipote Giuseppe, allora ragazzetto, lo accompagnava con entusiasmo.
Sperava sempre (e accadeva spesso) che si trovasse a vedere la motobarca che attraccava al pontile, dopo aver suonato la sirena, e lanciato una cima che da terra veniva raccolta e fissata all'ormeggio.
Gli piaceva vedere sistemare la passerella e sciamare in fila i bagnanti.
Altre volte si trovava con la partenza della motobarca, quando l'elica borbottante sollevava il fondo e faceva affiorare le alghe, mentre i piccoli nuotatori più arditi si tuffavano nella sua scia.

Il bar Vegezio divenne presto punto di ritrovo.
Ricordo che il signor Salvatore, quando Totonno (che bazzicava sempre lì attorno) stava per avere una delle sue crisi mattutine, con grande garbo lo prendeva sottobraccio e lo invitava a entrare con lui nel bar, offrendogli da bere e distraendolo.
Quando poi Salvatore 'o galiota, di professione portiere e poi bagnino a Riva Fiorita, saliva a comprare gli sfilatini, era tutto un fiorire di battute e di risate.
E c'era il signor Rigoli, che stupì tutti quando fuori al bar, in una delle gare di forza col signor Franchino, fu da questi sfidato ad alzare una 500 fino all'altezza dell'ombelico e la sollevò invece fino alle spalle.
Anche i Conti Del Balzo frequentavano sporadicamente il bar Vegezio.
Il Conte Mario, quello col monocolo, con la solita aria di sussiego, memore di antichi fasti, ostentava questa sua nobiltà; il fratello minore, molto più semplice e alla mano, veniva da lui redarguito perchè troppo democratico.
Il bar esiste tuttora, gestito da un nipote del signor Valerio, dal quale ha preso anche il nome.
Mi auguro che nonostante la diaspora dei posillipini veraci, possano ancora esistere a Posillipo personaggi in grado a loro volta di lasciare un segno che faccia sorridere di tenerezza e nostalgia nel ricordarli.

lunedì 2 ottobre 2017

Il centro storico di Napoli negli anni '50

Ricordi di una città pulita, ordinata, di qualche rarissima automobile, di signore e signori con cappelli e guanti, di persone abbienti con abiti eleganti, e di altre più modeste ma vestite dignitosamente -come si diceva allora- nel rispetto per sè stesse e per gli altri.
Ricordi di quando si passeggiava per via Toledo, piazza Plebiscito, Santa Lucia, via dei Mille, via Chiaia.

Alle 12, da Castel Sant'Elmo, partiva un colpo di cannone.
Tutti guardavano il proprio orologio e controllavano l'ora; per molti era un segnale per affrettarsi.
Ricordi di giardinieri indaffarati, a curare e ad innaffiare i giardinetti del Molosiglio e quelli accanto al Palazzo Reale.
Nelle aiuole erano infisse delle piccole lastre di ferro, verdi, con la scritta argentata che recitava: "Cittadini, proteggete i vostri giardini". 
Ricordi di gente tranquilla, che sfilava per via Roma il giovedì santo "incignando" un abito nuovo, come voleva la tradizione dello struscio, ed entrava e usciva dalle chiese per partecipare al rito dei Sepolcri. Bisognava averne visitati almeno sette!

Di fronte al Teatro San Carlo, sotto i portici della galleria, c'erano gli "sciuscià" .
Alcuni anziani, altri giovani, con delle luccicanti e mastodontiche poltrone d'ottone che sembravano troni, sollecitavano i passanti a sedervisi per farsi lucidare le scarpe.
Spesso si incontrava il pazzariello, che era un imbonitore vestito in modo eccentrico, con la feluca, giacca con le code, e bastone da lui roteato abilmente.
Lo accompagnavano tre suonatori, che sottolineavano con il rullo dei tamburi e con un piffero le meraviglie che man man venivano elencate dal succitato personaggio, che in questo modo pubblicizzava l'apertura di una nuova bottega, che era in genere una salumeria.

C'era poi il pianino, una scatola da musica montata su un piccolo carretto, e azionata con la manovella.
Ne venivano fuori nenie lente e nostalgiche, e canzoni antiche napoletane.
Quasi sempre un padre lo suonava, mentre il suo bambinetto girava tra la folla con un piattino di alluminio ammaccato, nel quale tutti, nessuno escluso, lasciavano una moneta.

I fujenti , devoti della Madonna dell'Arco, chiamati così perchè avevano fatto il voto di raccogliere le offerte senza mai fermarsi, giravano per il centro storico con il gagliardetto con l'effigie della Madonna, seguiti da una banda raffazzonata di tromboni e tamburi.
Erano tutti scalzi, con camicia e pantaloni bianchi, una fusciacca rossa in vita e una fascia azzurra a tracolla.

Un altro personaggio intramontabile e in "servizio" fino a qualche tempo fa, era un uomo che ormai sarà più vicino ai 90 che agli 80 anni.
Trascinava i piedi tenendo le punte aperte, e la mano tesa a raccogliere l'elemosina.
Lo si incontrava dovunque: a Chiaia, al Museo, a Santa Brigida, a Via Toledo, alla Stazione, a Piazza Dante.
Diceva continuamente " 'o ppà , 'o ppà - 'a zzì, 'a zzò", e ti tallonava finchè non eri costretto a lasciargli il tuo obolo.

Fuori a ogni basso c'era una bancarella che vendeva bomboloni, liquirizia, e caramelle sfuse (e gli anticorpi hanno funzionato alla grande!).

Alle 14 in punto, ogni domenica, a Monte di Dio e poi all'Egiziaca, si poteva incontrare e ascoltare un signore... d'altri tempi.
Vestito con un vecchio paletot, con un enorme collo sciallato e bordato di pelliccia, la barba bianca lunga, e le ghette che gli ricoprivano le scarpe, declamava a memoria Dante, Ariosto, la Gerusalemme Liberata di Tasso,in cambio di un'offerta.
Si vedeva che era una persona colta, e si raccontava che fosse stato un insegnante di liceo, per cui era chiamato da tutti per rispetto "il Professore".

A Chiaia e San Ferdinando ai poteva incontrare un uomo allampanato che richiamava i passanti con un filo di voce lamentoso, sperando di vendere " 'e tunninole " (le telline), mentre un altro, con una grossa cesta, mostrava la ricotta di fuscella esposta su foglie di felce e adagiata su uno sfilatino al momento dell'acquisto.

C'era anche il venditore di cèveze, gelse more, bianche e nere, raccolte in due cestini differenti.
A Piazzetta Mondragone, proveniente dal Corso, passava ogni giorno un uomo in canottiera, avanti con gli anni: era un merciaio.
Vendeva spille da balia, aghi, elastici, bottoni, chiusure lampo... Teneva riposta la sua mercanzia in un cassetto aperto, diviso in scomparti, che teneva davanti a sè ed era trattenuto da una grossa striscia di tela che gli passava dietro al collo.
Doveva aver preso idea dalle sigarettaie del Moulin Rouge e del Salone Margherita...
Il suo slogan era : " 'e lacce p' 'e scarpe, 'e mmooolle p' 'e mmutande!!".
A Toledo gli strilloni vendevano i quotidiani, Il Mattino e Il Roma e alla sera il Corriere di Napoli.
A Santa Brigida e fuori alla Galleria, un gobbo, piccolino ed emaciato, col mento aguzzo, aveva trovato modo di sfruttare questa sua imperfezione fisica invitando all'acquisto dei biglietti della lotteria dopo aver permesso una beneaugurante carezza sulla gobba.

Sempre nei paraggi, un venditore di cornetti di corallo, che portava infilzati sul cappello a tuba e sul bavero della giacca, dondolava una latta forata ai lati, nella quale bruciava incenso contro il malocchio.

I venditori di semi di zucca, noccioline americane e ceci abbrustoliti -che a Napoli si chiamano 'o spasso- giravano con i loro carrettini, richiamando l'attenzione dei clienti girando a brevi intervalli la corda di un fischietto a vapore.

C'era poi una donna, chiamata da tutti "la polmonara", che scendeva a Via Roma dai Quartieri Spagnoli, dopo aver fatto il giro delle macellerie, ed essersi fatta conservare gli avanzi.
Dava da mangiare a tutti i gatti che incontrava sul suo cammino, e questi la seguivano a frotte richiamati dal rumore che faceva una forchetta da lei battuta sullo scatolone di latta colmo di frattaglie.

Si incontravano spesso, nelle strade del centro, degli zingari, che in una gabbia minima portavano un pappagallino che col becco sceglieva e porgeva un piccolissimo foglio di carta velina colorata ,sul quale erano stampati tre numeri da giocare al lotto e un oroscopo raffazzonato: si chiamava "il Biglietto della Fortuna".

Il due Giugno, in concomitanza con la parata militare a Roma, anche a Napoli sfilavano le nostre forze armate. Tutti schierati a Via Caracciolo: celerini, marinai, carabinieri, allievi della Nunziatella, aviatori etc, dopo i vari saluti alla bandiera e all'autorità, arrivavano marciando fino a Via Partenope, passando tra due ali di folla.
I bambini, accompagnati dalle famiglie, sventolavano festosi le bandierine tricolori di carta e imparavano a rispettare le istituzioni -quando c'erano- .
A Natale, sollecitata dalle varie parrocchie, c'era la visita ai poveri del rione.
Tutti offrivano qualcosa.
In un palazzo storico, una famiglia che conoscevamo, ogni anno alla vigilia, organizzava una grande festa per i meno fortunati. Almeno una volta l'anno questi poveretti cenavano a tavola, serviti e riveriti, e andavano via ognuno con il suo regalo, ringraziando, benedicendo e aspettando con ansia di ripetere quest'esperienza l'anno successivo.

Poi, sempre a Natale, arrivava il circo.
Ogni anno ce n'era uno diverso. Non c'erano tende da montare perchè tutti i "numeri" si svolgevano al teatro Politeama, che veniva adattato all'uopo, spostando le poltrone per costruire una pista centrale.
Si vedevano cammelli e zebre a Via Toledo, accompagnati da pagliacci che distibuivano volantini che invitavano a recarsi allo spettacolo.
I lama e  le caprette venivano portati a brucare sulla collina del Monte Echia, a Pizzofalcone, " 'ncopp' 'e mmuntagnelle" .
Ricordo la nostra grande gioia nel periodo natalizio -dato che in inverno abitavamo proprio lì- nel vederle passare quotidianamente sotto casa insieme al personale del circo.

Venditore di ricotta di fuscella - foto da Internet

"Spesso si incontrava il pazzariello, che era un imbonitore vestito in modo eccentrico, con la feluca, giacca con le code, e bastone da lui roteato abilmente" - foto da internet

Sciuscià (1946) - foto di Federico Patellani

Venditore di ricotta di fuscella - foto da internet


Via Caracciolo in una foto degli anni '50

lunedì 14 agosto 2017

Compere, chiacchiere e sorrisi

Tutti i posillipini che abitavano più su di Piazza San Luigi, riconoscevano come loro "centro commerciale" i cento metri scarsi che andavano da Palazzo Panagìa al viale Costa.
Sulla sinistra si trovavano tre botteghe: una cartoleria, un negozio di barbiere, e una macelleria.
La cartoleria, posta strategicamente di fronte alla scuola Cimarosa, era gestita da una coppia gentilissima e affiatata. Vi si trovavano quaderni, penne, articoli di cancelleria, carte da regalo, cartoncini, e ci si meravigliava sempre che in un ambiente così piccolo quale era, potesse entrarci tanta roba.
Subito dopo c'era il barbiere, con l'immancabile sediolone con la testa di cavallo che avrebbe dovuto convincere i bambini riottosi, a tagliarsi i capelli.
Subito dopo c'era la macelleria, di cui si occupavano marito e moglie. La signora era addetta a preparare gli hamburger, il marito aveva un modo tutto suo di affettare la carne.
Seguiva il movimento del braccio, molleggiando sulle gambe, e ne veniva fuori una specie di balletto.
Di fronte c'era la farmacia, e poi la salumeria D'Angelo, piccola ma accorsata.
Sotto palazzo Bucciero il bar tabaccheria della signora Virginia, un forno a fascine, un fruttivendolo, un fabbro, e l'altra salumeria, quella del Ricciolillo.
L'edicola accanto al pilastro della discesa del Viale Costa chiudeva la zona commerciale.
C'era poi Luciano, pescivendolo ambulante, col suo tino azzurro col pescato del giorno, o con il secchio delle cozze.
Chi invece desiderava le uova e la frutta fresca si recava da Agostino, nella sua cascina rossa di fronte alla chiesa.
Per i bambini era una gioia: questi infatti erano invitati ad entrare con lui nel pollaio e a scegliere l'uovo fresco, oppure scendevano nella campagna sottostante e raccoglievano, a seconda della stagione, arance, mandarini e fichi.
Anni prima, quando ancora la vigna non era stata sacrificata per costruire le villette dei magistrati , sotto la strada e di fronte ai giardinetti, il padre di Agostino vendeva anche un ottimo vino prodotto da lui.
Fare la spesa era un'occasione di incontro: ci conoscevamo tutti.
Ci si scambiavano notizie, battute, sorrisi.



martedì 13 giugno 2017

Il 240

Era il "nostro" filobus, il filobus di Posillipo.
Unico mezzo pubblico che collegava la punta estrema della collina che chiudeva il golfo con il centro storico della città, e ci trasportava dal silenzio e la pace al caos del traffico metropolitano.
L'impatto però risultava graduale, poiché questa linea copriva quasi 10 chilometri, arrivando dalla rotonda del Capo a Piazza del Gesù.
Fino a Mergellina eravamo tutti posillipini; alla Torretta già saliva qualche estraneo, e altri ne venivano raccolti lungo la tratta. 
Il tragitto era lungo e il filobus era sempre affollatissimo. Soltanto durante l'inverno il 240 viaggiava quasi vuoto, salvo poi rifarsi con la stagione dei bagni, quando alla fermata di Santa Lucia, già affollata di suo, veniva preso d'assalto da donne del Pallonetto, sguaiate e vocianti, e dalla loro numerosa figliolanza. 
Le madri si piazzavano in fondo alla piattaforma, i ragazzini, magrissimi e abbronzati, con gli occhi neri e lucenti, scappavano avanti vicino al guidatore.
Puntualmente alla Riviera di Chiaia saliva il controllore: un uomo pacifico, tarchiato, un po' grosso, con il cappello e la divisa. Saliva dalla porta anteriore e chiedeva il biglietto ai ragazzini. Ognuno di loro rispondeva : " 'O ttène mammà!".
Ma le varie "mammà", nella calca, erano irraggiungibili, e quando e se il controllore, cercando di farsi strada, arrivava al fondo del filobus, alcune negavano che un loro figlio fosse salito a bordo.
Nel frattempo si era giunti alla fermata di Donn'Anna, dove c'era il bagno municipale gratuito.
Qui il filobus si svuotava d'incanto : madri e figli, come un fiume in piena, abbandonavano le loro postazioni e scendevano sulla spiaggia, mentre il povero controllore, madido di sudore, sconfitto e arreso, ripeteva ogni volta : "Proprio a me mi doveva capitare questa linea accussì disgraziata!"

Una volta, all'altezza di Viale Elena, si svolse una scenetta comica.
Allora c'era il fattorino che staccava i biglietti.
I viaggiatori salivano dalla parte posteriore, pagavano e andavano avanti. Per la verità si era invitati più volte dal fattorino a farlo. 
In piedi sul predellino, dominando tutti i passeggeri, diceva continuamente : "Camminare, andare avanti, avanti c'è posto!".
Un signore anziano bloccava il passaggio, reggendosi alla sbarra che delimitava lo spazio davanti al bigliettaio, e non aveva alcuna intenzione di lasciare la sua postazione.
Quando con tono garbato prima, e man mano più alterato, il fattorino - forte anche dell'appoggio degli altri passeggeri- cominciò a insistere per farlo spostare, il signore inferocito, pronunciò la fatidica frase : "Lei non sa chi sono io!" .
E allora il bigliettaio, con un colpo di teatro, esclamò : 
"Zitti tutti, 'o signore mo ce dice isso chi è!".
A questo punto il malcapitato fu costretto a scendere tra le risate generali.

Dalla fermata di Mergellina in direzione Posillipo, il 240 diventava una linea familiare.
C'era un'atmosfera da gita scolastica. Si rimaneva in pochi. 
Ci conoscevamo un po' tutti, personalmente o di vista. 
Ognuno sapeva l'altro dove sarebbe sceso. 
La più assidua a questa fermata era una donna anziana, un po' grossa, con gli occhi chiari e capelli grigi, vestita dimessamente. Indossava le pantofole e portava una borsa di stoffa  cucita attorno a dei cerchi di legno che fungevano da manici.
Appena salita sul filobus iniziava a cantare.
Cantava canzoni napoletane fino all'altezza di villa Cottrau, poi puntualmente raccontava che si recava al Capo da una famiglia presso la quale era stata governante.
Pur senza essere stata sollecitata raccontava storie di vita di queste persone dalle quali era stata a servizio. Per correttezza nessuno mai chiese quale fosse questa famiglia, che certo non avrebbe gradito fossero messe in piazza le loro faccende private.

Man mano che ci si avvicinava al capolinea le espressioni si rasserenavano, si era più inclini al sorriso e ognuno in cuor suo comprendeva il grande privilegio di vivere in quest'oasi di pace, silenziosa e profumata di mare, mentre la città, bellissima e ormai lontana, con il suo ritmo frenetico, compariva e scompariva fra gli alberi a ogni curva.

Il 240 a Piazza del Gesù - Archivio Clamfer-Napoli 
Archivio Clamfer-Napoli 



Riviera di Chiaia (?) - Archivio Clamfer-Napoli

Archivio Clamfer-Napoli 

Il 240 a Piazza San Luigi - Archivio Clamfer-Napoli

All'altezza del Cinema Posilipo - Archivio Clamfer-Napoli


Tutte le immagini provengono dall'archivio Clamfer-Napoli, che ringraziamo.

giovedì 4 maggio 2017

il Cantiere Posillipo

Il dottor Licastro, carissimo e bonario direttore del Cantiere Posillipo, varcava il cancello, saliva la lunga scala di legno appoggiata alla parete di tufo, e raggiungeva il soppalco che occupava la parte superiore della grotta, nel quale era stato ricavato il suo ufficio.
La sua scrivania era posizionata accanto al finestrone, dal quale si dominavano lo scivolo, lo scalone, e il porticciolo.

Era l'anno 1951.
Il Cantiere Posillipo si era occupato fino ad allora principalmente di rimessaggio e di piccole riparazioni, ma con questo nuovo direttore le cose man mano cambiarono.
Fu assunto un esperto ,un ingegnere navale, il dottor Romano. 
Piccolino, dalla testa rotonda, come rotondi erano i suoi occhiali senza montatura, e sempre vestito di nero.
Nera era anche la sua cartella, dalla quale non si separava mai e da cui spuntavano rotoli di carta da disegno di varie misure, mentre altri ne portava sotto al braccio libero.
Prendeva misure, faceva schizzi e calcoli, ed era stimato e benvoluto da tutti gli operai per la sua professionalità e la sua competenza mai ostentata.
Era molto gentile anche con noi ragazzetti e noi ne avevamo gran rispetto.

Grazie alla nostra amicizia con i figli del dottor Licastro, avevamo libero accesso alle grotte del cantiere e consideravamo un atto di coraggio inoltrarci in quel dedalo di cavità altissime e man mano sempre più buie e umide.
Ci facevamo strada tra scafi di tutti i tipi: vecchie lance, sandolini, barche a vela, gozzi cabinati.
Molti erano lì da anni, e giacevano abbandonati in fondo alle grotte. 
Fra questi c'erano dei cutter, ormai ricoperti in modo uniforme e permanente dalla polvere di tufo.
Pensavo e penso che ogni imbarcazione abbia una propria vita, una propria storia da raccontare, e vederli così dimenticati e messi da parte mi rattristava.
Quando passavamo tra le barche l'incavo per l'alloggiamento dell'elica era decisamente più in alto di noi. 
Infatti questi scafi poggiavano sulle invasature, che ne contenevano le fiancate, mostrando la linea di galleggiamento e la chiglia.
Erano gigantesche!

Verso la fine degli anni '50 fu reclutata ulteriore manodopera.
Allora erano molto in voga i costosissimi motoscafi Riva, costruiti al nord; possederne uno era considerato uno status symbol
Il Cantiere Posillipo mise a punto una versione più economica e ugualmente brillante e nacquero così il Positano e il Bermuda, e successivamente gli Olympia, costruiti nel 1960 in occasione dei giochi olimpici.

In quegli anni ci fu anche il varo di un piccolo yacht interamente costruito al cantiere: si chiamava Giorgina, dal nome della figlia del committente, e fu varato con una grande partecipazione di folla festante.

Durante l'estate, un pontone veniva a scaricare in mare dei grossi tronchi di pino tagliati longitudinalmente che, segati, sarebbero serviti per le ordinate, posizionate in ordine decrescente al di qua e al di là di quella centrale, montata nella chiglia. 
Questi tronchi rimanevano in acqua nel porticciolo alcuni giorni, per "prendere confidenza con il mare", e per noi era una festa. 
Ci rincorrevamo -saltando da un tronco all'altro- ci tuffavamo, ci stendevamo a mo' di materassino a prendere il sole.

Fra le maestranze c'era un quartetto di manovali straordinario e affiatatissimo: Enzo, dai capelli neri ricci e lucidi che veniva da Donn'AnnaCiro, dai lineamenti delicati, Vincenzo "Capa Janca" Cafarelli, Totonno " 'a mano 'e Ddio" soprannominato così perchè diceva che con la mano del Signore si riesce in qualsiasi impresa.
Erano quattro uomini forzuti che lavoravano all'aperto tra lo Scalone e lo scivolo: mettevano il grasso sulle traversine, agganciavano il cavo d'acciaio all'invasatura, che facevano scivolare delicatamente in mare, vi imbracavano con cautela l'imbarcazione, mettevano in funzione l'argano e lentamente la facevano avanzare correggendone la direzione con lunghi pali, fino a farle raggiungere la grotta. 
Ricordo anche Peppe Castiello, esperto masto d'ascia, Gigino il meccanico, Don Peppe il tornitore, che nei pochi momenti liberi ci mostrava con gli avanzi di legno come fare al tornio un bicchiere, un dado, una ciotola. Il calafato, con le sue matassine di stoppa o di canapa, lo scalpello a taglio ottuso e il martelletto, saliva la scaletta appoggiata alla "pancia" dell'imbarcazione, e pazientemente riempiva le fessure rimaste aperte nel fasciame.

Mi sembra di riascoltare lo stridìo della sega, dal suono acuto e penetrante, e di risentire tutti gli odori che hanno accompagnato la mia lontana giovinezza: denti di cane e alghe in fermentazione sulle chiglie, antivegetativa, flatting e vernice, umidità e tufo, trucioli e segatura di pino e di abete, grasso e manteca.

E ripenso a Concettina, scimmietta dispettosa, che era la mascotte del cantiere, e a Barone, splendido cucciolone nero di mastino napoletano, e la sua compagna Duchessa, dal manto argentato e gli occhioni azzurri.
Entrambi dolcissimi, avrebbero dovuto fare la guardia...

Veduta aerea di Riva Fiorita - in evidenza le grotte del Cantiere Posillipo 

Riva Fiorita , sullo sfondo il Cantiere Posillipo

Riva Fiorita

martedì 4 aprile 2017

La Villa Comunale

A mia memoria dall'anno '46 fino al '55 e anche un po' oltre, la Villa Comunale ogni domenica mattina era frequentatissima dalle famiglie. Probabilmente, con la fine della seconda guerra mondiale, si sentiva di più il bisogno di stare insieme, di riprendere le vecchie abitudini, di esorcizzare i tristi ricordi degli anni appena passati.

D'altronde i giardini ben tenuti, l'aria di mare, la passeggiata a via Caracciolo, le panchine all'ombra, invogliavano a questo tacito periodico raduno.

C'erano le balie ciociare, con le gonne blu o rosse e i grembiuli con la pettorina bordati di pizzo, che spingevano le carrozzine; c'era il venditore di semenze, con il suo cesto sul quale un paletto di legno reggeva infilzati i taralli bianchi di glassa, c'era il teatrino delle guarattelle, che affascinava i bambini ma anche gli adulti.
Ricordo un pianino che suonava in sordina le canzoni napoletane, mentre i bambini aspettavano pazientemente il loro turno per salire sui carrettini trainati dalle caprette che li avrebbero portati in giro per la Villa. Ne vedevo altri sostare presso la Fontana delle Paparelle e osservarle con meraviglia.
Il venditore di palloncini - "Guagliù, chiagnìte!"- riusciva a vendere tutta la sua merce.

Intanto una coppia di carabinieri a cavallo, lenta e placida, andava su e giù lungo via Caracciolo insieme a qualche carrozzella che portava i turisti a spasso.
A mare i canottieri vogavano, e qualche vela lontana prendeva il vento, mentre sul lungomare i pescatori tiravano una lunga corda annodata, alla quale era attaccata una rete (si diceva che fossero pagati dall'azienda di soggiorno, per fare scena!).

In Villa le bambine giocavano con il volano, i tamburelli e le corde per saltare.
I maschi con le biciclette e i pattini.
Poi c'erano i bambini "benestanti", riconoscibilissimi perchè non si sporcavano mai, stavano in disparte, e giocavano solo tra di loro. Mi dispiaceva un po' per loro.
I maschi portavano i bermuda, le femmine i vestiti a palloncino con i golfini soffici e fra i capelli i cerchietti ricoperti di panno lenci.

Anche noi andavamo in Villa - scendevamo con l'ascensore della Nunziatella -così lo chiamavano tutti- insieme ai nostri genitori e alle nostre biciclette.
Altre volte ci accompagnava il nonno materno, uomo di mare, e la tappa obbligata era l'Acquario.

Appena si entrava c'era una piccola vasca, grande come un lavabo, un po' in disparte e quasi al buio.
Vi dimorava una torpedine, e ogni volta il nonno insisteva per farcela toccare e provare la scossa elettrica.
Iniziava lui, dandoci il buon esempio, ma io ero sempre molto titubante.
Poi, tramite le sue conoscenze -conosceva sempre tutti-  ci portava a guardare le vasche dall'alto, rendendoci fieri di questo trattamento speciale, tanto da vantarci con i nostri amichetti.

A tratti un rumore strano, come di un grossissimo calabrone, rompeva il silenzio.
Era un aeroplanino pubblicitario, che trainava uno striscione con su scritto "Mobili Fogliano".
Seguiva dall'alto un lancio di volantini colorati, che distoglieva i piccoli dai loro giochi per precipitarsi a raccoglierli.

Ho un altro ricordo simpatico della Villa Comunale: almeno due volte ho assistito ad una gara che si svolgeva annualmente tra i camerieri dei bar.
Questi, correndo con un vassoio in una mano, dovevano portare una brocca e dei bicchieri colmi d'acqua dalla Casina dei Fiori fino alla Colonna Spezzata senza far versare neanche una goccia.
Noi tifavamo per un certo Pasquale, del bar dell'Hotel Vittoria, dove facevamo tappa prima di tornare a casa.

Pescatori a Via Caracciolo (qualche anno prima!) - Foto da Internet


Gara dei camerieri, in una vecchia edizione (1933) - Foto Archivio Storico Peroni


I carrettini trainati dalle caprette - immagine di autore sconosciuto da wikimedia

Io e mio fratello in una foto di tanti, tanti anni fa, alla Villa Comunale 


La Villa Comunale in una foto dal Grand Hotel o dal Consolato degli Stati Uniti a via Caracciolo

lunedì 27 febbraio 2017

Una terrazza sul mare

Costruita arditamente su una delle grotte del cantiere Posillipo, la terrazza di Villa Fernandes dove affittavamo casa e dove abbiamo vissuto tanti anni, si trova in posizione strategica.
190 scalini la separano dalla spiaggetta privata e dalla rada di Riva Fiorita e dall'alto la vista spazia da Castel dell'Ovo fin quasi a Pietra Salata.
Praticamente avevamo sott'occhio tutto quello che accadeva nel golfo.
Essendo un po' sopraelevata rispetto a questo palcoscenico naturale, ci sembrava di stare in loggione.
Di faccia avevamo il Vesuvio e tutti i paesini della costiera sorrentina fino alla Punta della Campanella.

Oltre al quotidiano passaggio di pescherecci, barche, gozzi, motoscafi e vaporetti, assistevamo dall'alto agli inseguimenti degli enormi, velocissimi scafi blu dei contrabbandieri di sigarette da parte della guardia di finanza e della guardia costiera.
Vedevamo anche un palombaro che si vestiva nella sua barca appoggio e indossava lo scafandro, l'elmo, i pesi e le scarpe di ferro. Poi si calava in acqua al centro del porticciuolo, e l'uomo che lo accompagnava cominciava a pompare aria, girando lentamente una ruota alloggiata nello scafo.
Ero bambina e tante volte ho temuto che una distrazione o un malore della persona che rimaneva in barca potessero interrompere il flusso d'aria che permetteva al palombaro di camminare e sostare sott'acqua.
Era un sollievo vederlo riemergere sano e salvo!
Non ho mai saputo quali frutti di mare raccogliesse, perchè noi lì non ne abbiamo mai trovati; ricordo però che sul fondo c'era visibilissima l'ala di un aeroplano che era stato abbattuto durante l'ultima guerra e che dopo anni fu finalmente imbracata e portata via.

Quando il sole tramontava, 'Zi Peppe arrivava con la sua barchetta, nella quale prendevano posto Gennaro il Gentiluomo, a volte Barbetta o chiunque si offrisse di accompagnarlo, e lanciava la rete.
Bisognava essere in tre.
'Zi Peppe remava in circolo, Gennaro batteva con forza due pezzi di legno sui bordi della barca, il terzo lanciava in acqua una pietra ingabbiata in una sagola, che ritirava su e lanciava di nuovo.
Noi eravamo abituati a questo rituale, e sapevamo che era un modo collaudato per catturare i pesci che, spaventati dal rumore, sarebbero finiti nella rete; però, ogni volta che li vedevo pensavo che, visti da un settentrionale o da un montanaro, sarebbero sembrati tre matti in libertà, e mi veniva sempre da ridere.

La sera, nelle notti senza luna, una o due lampare esploravano senza sosta la rada, e con la luce forte riconoscevamo gli scogli dai quali ci tuffavamo di giorno e le chiane coperte di alghe e di cozze.

Ma il ricordo più bello si riferisce al 1960, anno delle olimpiadi di Roma, durante le quali le regate veliche si svolsero a Napoli.
Vi parteciparono cinque classi: FINN, STAR, 550, Flying Dutchman, e Dragoni (in quest'ultima vinse Costantino, Re di Grecia).
Il golfo fu invaso da vele di tutti i colori, che prendevano dimestichezza con le correnti prima di gareggiare.
Arrivarono le navi scuola di tutti i paesi partecipanti, con i marinai schierati e allineati, in piedi, tutti rivolti verso la costa in atto di omaggio alla città che li ospitava.
Fu una grande festa, anche per gli occhi!
Inutile dire che erano presenti sia la Palinuro che la Amerigo Vespucci, e che, ancora una volta, notammo che erano più belle di tutte le altre.
E ancora, in estate, quasi ogni sera, in occasione di qualche festa patronale (poichè ogni paesino vesuviano festeggiava il suo santo) si udivano da lontano piccole esplosioni seguite da pochi minuti di fuochi artificiali.


Una regata dei Dragoni nei Giochi Olimpici del 1960 - Fotografia da Gazzetta.it

L'Amerigo Vespucci a Napoli - Foto dal sito http://navidalmondo.blogspot.it




giovedì 19 gennaio 2017

La danza delle ore... e delle navi

Chi ha avuto la fortuna di essere ragazzo a Posillipo tra gli anni '55-'65, ricorderà come il ritmo della giornata nelle vacanze estive, venisse scandito da un rituale quotidiano. 
Si iniziava con i gozzi dei pescatori che rientravano subito dopo l'alba; poi era la volta dei canottieri che uscivano la mattina presto; poi spuntava la prima motobarca per i più mattinieri.
Attorno alle 10, il Lily, splendido cutter azzurro, lasciava l'ormeggio di Mergellina e faceva rotta verso Sorrento o Capri. 
Le barche a remi, i "canotti", come li chiamavano i marinai, affittati da Alfonso a San Pietro ai due Frati, o da Barbetta, da 'Zì Peppe, e da'Zì Rafele a Giuseppone e a Riva Fiorita, costeggiavano le ville, passando accanto agli stabilimenti sulle palafitte.
Alle 11 in punto il Karama, meraviglioso tre alberi di Achille Lauro, attraversava il golfo con destinazione Capo Miseno.
Nel frattempo altre motobarche trasportavano i bagnanti ai lidi prescelti.
Alle 12 il sole a picco illuminava il canotto di Michele, che ritornando verso il Sirena, remava in piedi con una gamba al di qua e una al di là del baglio centrale.
Era piccolino, con un fisico asciutto da ragazzo: soltanto le rughe gli facevano mostrare i suoi anni. 
Mentre remava, si guardava attorno, augurandosi che qualcuno lo trainasse; il che, per la verità, accadeva spesso.
C'era poi il costruttore Comola, col suo splendido Riva in mogano, che allora rappresentava un sogno per tutti.
Immediatamente dopo le 13 si alzava il Forano (in italiano "Foraneo") vento che soffia perpendicolarmente alla costa, ben noto ai velisti, preceduto da una refola lieve e velocissima, quasi un brivido sulla superficie del mare.
Durante la giornata più volte i vaporetti per le isole, incrociando, si erano salutati con le sirene.

Ne ricordo due: l'Abbazia -tozza e rumorosa- che nel raggiungere Capri lasciava un gran fumo, e la Principessa di Piemonte, dalla linea slanciata ed elegante, con il fumaiolo centrale (come i piroscafi che allora disegnavano i bambini), che faceva servizio su Procida e Ischia.
Ad interrompere questa tranquilla routine nel golfo pensavano le navi, le nostre belle navi da crociera che erano una gioia per gli occhi: ilSaturnia con il gemello Vulcania, lo splendido Andrea Doria, destinato nel 1956 ad una triste fine che addolorò tutti, laMichelangelo e la Raffaello.

Quando dalla terrazza sul mare ne vedevamo spuntare una dietro la punta di Posillipo, noi ragazzini della villa ci precipitavamo per i 190 scalini che ci separavano dalla spiaggetta e nuotavamo incontro alle onde lunghe prima che queste si smorzassero sugli scogli.
Alle 17 il comandante Lauro, in costume e canottiera, rientrava aMergellina pilotando il suo motoscafo.
I marinai raccontavano che dopo l'ultimo bagno a Miseno, ancora bagnato, indossava la maglietta e si faceva calare in mare il suo tender. Dopo una mezz'ora buona compariva anche il Karama.

Al tramonto, altro stile, altra classe. 
Una goletta azzurra, dalle linee perfette, col guidone azzurro e rosso svolazzante sull'albero maestro, solcava silenziossima il mare, passando lentamente sottocosta per essere ammirata. A bordo c'era sempre il proprietario, l'ingegner Guido Platanìa, dai capelli bianchi, minuto e distinto, elegantissimo in doppiopetto blu, con foulard nel collo della camicia, spesso in piedi nel pozzetto di poppa o seduto su una sedia da regista.

Attorno agli anni '60 cambiarono molte cose.
Sempre più persone possedevano una barca, un gozzetto, un gommone.
Ai simpaticissimi motori fuoribordo Seagull, lenti e sicuri, si affiancarono gli Evinrude, i pompatissimi Mercury -che partivano di scatto- e i Chrysler.
La plastica, facendo inorridire i "puristi", pian piano iniziò a sostituire il legno. 
Anche la forma delle barche cambiò.
Dall'America arrivarono i Boston Whaler, scafi piatti con grande prendisole, adatti più ai fiumi che al mare, senza la prua tradizionale alla quale eravamo abituati.
Anche i collegamenti con le isole subirono una trasformazione: ebbero successo gli aliscafi, che cominciarono a fare concorrenza ai vaporetti. 
I passeggeri -pur di fare prima- ammettevano di prendere un autobus del mare, rinunciando al piacere di sedere all'aperto e di godere del sole, del mare, del vento.
Fortunatamente però alcuni punti fermi rimasero.
A completamento del rituale quotidiano, alle 21 il postale per Palermo partiva dal porto con un cupo suono di sirena e dopo una mezz'ora si vedeva la sua poppa scomparire dietro Capri.
Alle 22 l'inconfondibile voce di Tullio Pane cantava :
"Che m'he purtato a ffa' 'ncoppo Pusilleco si nun me vuò cchiù bbene?".

E questa era l'ultima canzone che i Posillipini ascoltavano mentre la motobarca sonora della sera faceva ritorno al Molosiglio.


La nave "Saturnia" in navigazione - immagine da Internet

La "Vulcania" - Foto da Internet
Palazzo Donn'Anna, Mergelllina e Via Caracciolo viste da Posillipo - Foto da Internet