giovedì 4 maggio 2017

il Cantiere Posillipo

Il dottor Licastro, carissimo e bonario direttore del Cantiere Posillipo, varcava il cancello, saliva la lunga scala di legno appoggiata alla parete di tufo, e raggiungeva il soppalco che occupava la parte superiore della grotta, nel quale era stato ricavato il suo ufficio.
La sua scrivania era posizionata accanto al finestrone, dal quale si dominavano lo scivolo, lo scalone, e il porticciolo.

Era l'anno 1951.
Il Cantiere Posillipo si era occupato fino ad allora principalmente di rimessaggio e di piccole riparazioni, ma con questo nuovo direttore le cose man mano cambiarono.
Fu assunto un esperto ,un ingegnere navale, il dottor Romano. 
Piccolino, dalla testa rotonda, come rotondi erano i suoi occhiali senza montatura, e sempre vestito di nero.
Nera era anche la sua cartella, dalla quale non si separava mai e da cui spuntavano rotoli di carta da disegno di varie misure, mentre altri ne portava sotto al braccio libero.
Prendeva misure, faceva schizzi e calcoli, ed era stimato e benvoluto da tutti gli operai per la sua professionalità e la sua competenza mai ostentata.
Era molto gentile anche con noi ragazzetti e noi ne avevamo gran rispetto.

Grazie alla nostra amicizia con i figli del dottor Licastro, avevamo libero accesso alle grotte del cantiere e consideravamo un atto di coraggio inoltrarci in quel dedalo di cavità altissime e man mano sempre più buie e umide.
Ci facevamo strada tra scafi di tutti i tipi: vecchie lance, sandolini, barche a vela, gozzi cabinati.
Molti erano lì da anni, e giacevano abbandonati in fondo alle grotte. 
Fra questi c'erano dei cutter, ormai ricoperti in modo uniforme e permanente dalla polvere di tufo.
Pensavo e penso che ogni imbarcazione abbia una propria vita, una propria storia da raccontare, e vederli così dimenticati e messi da parte mi rattristava.
Quando passavamo tra le barche l'incavo per l'alloggiamento dell'elica era decisamente più in alto di noi. 
Infatti questi scafi poggiavano sulle invasature, che ne contenevano le fiancate, mostrando la linea di galleggiamento e la chiglia.
Erano gigantesche!

Verso la fine degli anni '50 fu reclutata ulteriore manodopera.
Allora erano molto in voga i costosissimi motoscafi Riva, costruiti al nord; possederne uno era considerato uno status symbol
Il Cantiere Posillipo mise a punto una versione più economica e ugualmente brillante e nacquero così il Positano e il Bermuda, e successivamente gli Olympia, costruiti nel 1960 in occasione dei giochi olimpici.

In quegli anni ci fu anche il varo di un piccolo yacht interamente costruito al cantiere: si chiamava Giorgina, dal nome della figlia del committente, e fu varato con una grande partecipazione di folla festante.

Durante l'estate, un pontone veniva a scaricare in mare dei grossi tronchi di pino tagliati longitudinalmente che, segati, sarebbero serviti per le ordinate, posizionate in ordine decrescente al di qua e al di là di quella centrale, montata nella chiglia. 
Questi tronchi rimanevano in acqua nel porticciolo alcuni giorni, per "prendere confidenza con il mare", e per noi era una festa. 
Ci rincorrevamo -saltando da un tronco all'altro- ci tuffavamo, ci stendevamo a mo' di materassino a prendere il sole.

Fra le maestranze c'era un quartetto di manovali straordinario e affiatatissimo: Enzo, dai capelli neri ricci e lucidi che veniva da Donn'AnnaCiro, dai lineamenti delicati, Vincenzo "Capa Janca" Cafarelli, Totonno " 'a mano 'e Ddio" soprannominato così perchè diceva che con la mano del Signore si riesce in qualsiasi impresa.
Erano quattro uomini forzuti che lavoravano all'aperto tra lo Scalone e lo scivolo: mettevano il grasso sulle traversine, agganciavano il cavo d'acciaio all'invasatura, che facevano scivolare delicatamente in mare, vi imbracavano con cautela l'imbarcazione, mettevano in funzione l'argano e lentamente la facevano avanzare correggendone la direzione con lunghi pali, fino a farle raggiungere la grotta. 
Ricordo anche Peppe Castiello, esperto masto d'ascia, Gigino il meccanico, Don Peppe il tornitore, che nei pochi momenti liberi ci mostrava con gli avanzi di legno come fare al tornio un bicchiere, un dado, una ciotola. Il calafato, con le sue matassine di stoppa o di canapa, lo scalpello a taglio ottuso e il martelletto, saliva la scaletta appoggiata alla "pancia" dell'imbarcazione, e pazientemente riempiva le fessure rimaste aperte nel fasciame.

Mi sembra di riascoltare lo stridìo della sega, dal suono acuto e penetrante, e di risentire tutti gli odori che hanno accompagnato la mia lontana giovinezza: denti di cane e alghe in fermentazione sulle chiglie, antivegetativa, flatting e vernice, umidità e tufo, trucioli e segatura di pino e di abete, grasso e manteca.

E ripenso a Concettina, scimmietta dispettosa, che era la mascotte del cantiere, e a Barone, splendido cucciolone nero di mastino napoletano, e la sua compagna Duchessa, dal manto argentato e gli occhioni azzurri.
Entrambi dolcissimi, avrebbero dovuto fare la guardia...

Veduta aerea di Riva Fiorita - in evidenza le grotte del Cantiere Posillipo 

Riva Fiorita , sullo sfondo il Cantiere Posillipo

Riva Fiorita