venerdì 19 marzo 2021

Don Lemporio

Accanto alla ex fabbrica di ghiaccio, poi diventata deposito della Birra Peroni, c'era una minuscola bottega -o meglio, un bugigattolo, grande forse come un box auto- che aveva la pretesa di essere un emporio. Si trovava prima di Piazza San Luigi, quasi di fronte al ristorante "Le Terrazze".
Apparteneva a un signore gentilissimo, simpatico e garbato, che prendendosi in giro diceva che questi erano i "Grandi Magazzini" di Posillipo. Aveva una faccia sorridente, tranquilla, i baffetti sottili e brizzolati. 
Non sapendo come chiamarlo, tutti lo chiamavano Don l'Emporio, che in seguito diventò "Don Lemporio". 
Al mattino apriva le ante della piccola bottega e appendeva ai chiodi appositi i cartoni con le pentoline per la cucinella delle bambole, i coppi (adesso si chiamano retini) per la pesca, i fuciletti di legno e di latta per i bambini, le lenze di nylon avvolte attorno a rettangoli di sughero, un cartone con i soldatini di plastica, etc.
All'interno le cose più disparate: spaghi, nastri, palline ripiene di segatura con l'elastico per lanciarle, figurine di calciatori, fionde, strummoli, orologini finti, occhiali di plastica, piccole cose, giocattoli innocui che facevano felici i bambini di una volta.
La mercanzia esposta cambiava a seconda della stagione e delle ricorrenze. In estate chiaramente tutto quello che riguardava il mare: secchielli, innaffiatoio, passino, formine. A Carnevale maschere di cartone, cappelli da fata, trombette, coriandoli, stelle filanti. A Natale palline colorate, fili d'argento, candeline da fissare sull'albero. In inverno, insieme alle cucchiarelle di legno, i forchettoni, ai mestoli e alle schiumarole, sempre presenti, avresti potuto trovare la padella di ferro forata per cuocere le caldarroste. 
E questo era il segno che un altro anno era trascorso.

Foto di repertorio - dall'archivio dell'artista Vittorio Pandolfi



lunedì 1 marzo 2021

Vincenzo "Manomozza"

Dignitoso fino all'ingenuità

Nacque nel 1892 a Villa Volpicelli, in una minuscola casa in fondo al giardino, dove il padre Nunziante, allora giardiniere della villa, viveva con la moglie. Lo chiamarono Vincenzo. 
Ragazzino sveglio, vivace, pieno di inventiva, diventerà presto un giovane aitante, desideroso di trovare quanto prima una fatica. La tentazione di lavorare al cantiere, nelle grotte dei Gallotti, era forte. Era ancora un ragazzo, sposatosi molto giovane, quando si presentò al Barone Tristano e venne assunto. 

Onesto. preciso, puntuale, affidabilissimo, diventò -come si diceva allora- l'uomo di fiducia dei Gallotti. Nutriva per loro una forma di venerazione, dovuta anche al rapporto cordiale che il Barone e i suoi figli instauravano e hanno sempre instaurato con i loro dipendenti.

Le grotte, alte, profondissime e in successione, ospitavano un cantiere navale e un'importante officina meccanica nella quale più tardi verranno costruiti alcuni pezzi che completeranno l'assemblaggio e il collaudo degli idrovolanti. Tutto si svolgeva tra le grotte e la rada dell'attuale Riva Fiorita. C'erano però due scogli affioranti che costringevano a una manovra fastidiosa durante il varo. Vincenzo si recò dal Barone e gli propose di utilizzare due cariche di esplosivo che avrebbero risolto il problema, e tanto insistette finché non l'ebbe convinto. 
La prima carica brillò, decapitando uno degli scogli. La seconda purtroppo esplose prima che Vincenzo potesse allontanarsi a distanza di sicurezza. Saltò in aria, perse un braccio, e gli rimasero tre dita nella mano superstite, oltre a notevoli danni al volto.

Tramite l'interessamento della Regina Margherita, che quando era a Napoli veniva spesso ricevuta a Villa Gallotti, fu affidato alle cure del dottor Piromallo, che era allora in competizione con il famoso (e poi santificato) dottore Moscati, ma che niente poté per l'arto tranciato di netto.

E così per tutti, da allora, Vincenzo diventò "Vincenzo Manomozza".

Il Barone Gallotti, affranto dal dispiacere, si sentiva responsabile di questa sciagura, e gli offrì la casetta nella quale abitava a Giuseppone, più altri due piccoli appartamenti nella stessa palazzina. Ma Vincenzo non volle sentire ragioni. Rifiutò con veemenza, volendo orgogliosamente dimostrare che la responsabilità di questa sventura fosse soltanto sua, e desiderando scagionare completamente il suo datore di lavoro, che si era più volte opposto a questo intervento ritenendolo troppo rischioso.

Vincenzo non vedeva l'ora di riprendere a lavorare. Si costruì da solo una specie di manicotto come protesi per il moncherino, lasciando dei buchi al posto delle dita. Ad ogni buco corrispondeva un attrezzo: una lima, un piccolo martello, una raspa, un seghetto, che tirava fuori alternativamente con le dita superstiti dell'altra mano. Ricominciò a a lavorare al cantiere, e nonostante questa sua menomazione, si dedicò nel tempo libero al modellismo nautico. Riprodusse il Rex e l'Andrea Doria, e ricordo tuttora la fascinazione nel vederlo lavorare con tanta precisione.

Lo conobbi quando aveva più di cinquant'anni. Rimasto vedovo si era risposato, e veniva spesso dai Gallotti, ai quali era rimasto devotamente affezionato, accompagnato dalla sua bambina dagli incredibili occhi verdi. Continuò a lavorare al cantiere e ad organizzare il lavoro degli operai, anche quando i Gallotti cedettero la gestione. Quando il cantiere chiudeva andava a curare il suo pezzo di terra che tutti sapevano gli fosse stato donato "sulla parola" dal Re Vittorio Emanuele, che nel 1921 andò a vivere a Villa Rosebery. Con l'aiuto della moglie Concettina, in questo terreno abbandonato Vincenzo riuscì a coltivare cicoria, nespole, prugne, e addirittura tre filari di uva. All'interno di esso c'era una stanzetta con un focolare, e fuori una grande vasca per l'acqua piovana.

Il Re, che dal muro di cinta vedeva quest'uomo lavorare la terra, gliela donò, anche se non faceva parte della villa Rosebery (che comunque non era tecnicamente sua), e tutti hanno sempre apprezzato la buona volontà, e la capacità di Vincenzo di riscattarsi con il lavoro dalla sua menomazione. Ma un brutto giorno, un Ente morale accampò dei diritti di proprietà su quel terreno e intentò causa. A nulla valsero le testimonianze dei pescatori di Giuseppone (alcuni testimoni del "dono"), e neppure l'usucapione, che per pochi giorni non raggiunse i termini stabiliti. Per Vincenzo fu un brutto colpo.

Era ormai anziano. Aveva l'incarico di aprire e richiudere i cancello del cantiere.

Una sera, mentre si accingeva a mettere la catena e a chiudere il catenaccio, si presentarono l'onorevole Leone (che in seguito sarebbe diventato Presidente della Repubblica) e la moglie, esprimendo il desiderio di visitare le grotte. Vincenzo si mise a disposizione e li accompagnò. Dopo averlo ringraziato, Leone, sul punto di andarsene, chiese a Vincenzo per chi avrebbe votato, e lui, ingenuo e sincero, memore dei suoi "trascorsi" con i reali, rispose : "Dottò, io sono e sarò sempre monarchico!".

Non era certamente la risposta che il senatore si sarebbe aspettato di ascoltare.

Più tardi, quando i Leone erano ormai andati via, Ciro, portiere del parco, si fermò, con tono allusivo, a parlare con Vincenzo.

"Viciè, allora? E' gghiuta bbona 'a visita?"

-"Nun se ne jevano cchiù, l'aggio cuntato 'nu cuofano 'e cose!"

"E allora t'ha lassato 'na bella regalìa, eh?"

-"No! Pecchè, dice che m'avevano lassà coccosa?"

"Ma comme? Nun t'hanno lassato niente?"

-"No!"

 "Cose 'e pazze! E che t'ha ditto 'o senatore?"

-"Niente, me ringrazziaje... Po' vuleva sapè je pe' chi vutavo."

"E tu nun haje ditto: "Democristiano!" ?

-"Ma quanno maje! Je so' monarchico!"

"Viciè, tu ancora staje appriesso a 'stu rre? E chillo perciò nun t'ha lassato niente! Tu staje dinto 'a luna!"