lunedì 23 settembre 2024

Storia di un'amicizia

Renato, posillipino per eccellenza, viveva sul mare e per il mare. Aveva fatto tutta la trafila dei ragazzi di Posillipo: bagni a tutte le ore e in tutte le stagioni, tuffi, pesca con il coppo, con la lenza, con la canna, con la polpara, con il fucile subacqueo. Poi scoprì la vela, e partecipò a varie regate nel golfo. Appena poté comperò un gozzo, sul quale imbarcava i suoi amici, sempre di più numerosi, e iniziò a pescare anche a traina.

A Napoli, a metà degli anni '50 i sub che utilizzavano le bombole erano pochissimi. Renato non si lasciò scappare l'occasione di provare, e si innamorò di questo nuovo modo di vivere il mare. Quello che era iniziato come un gioco, diventò poi per lui anche un lavoro.

Luciano, che se non sbaglio era salernitano, giunto a Posillipo si adeguò immediatamente al modo di fare e di essere di questi napoletani decisamente particolari. Simpaticissimo, sveglio, svelto, affabulatore, fece subito amicizia con tutti. Anche lui appassionato di immersioni subacquee, conobbe Renato e furono entrambi contattati dalla Pirelli per posare cavi sui fondali tra la terraferma e le isole. 

Alla fine degli anni '50 le immersioni subacquee avevano iniziato a prendere piede, e sempre più numerosi diventavano gli appassionati. I più anziani, quelli che le avevano scoperte per primi, tentavano il salto di qualità. Cominciò a spargersi la voce che in Sardegna c'erano numerosi ed enormi banchi di corallo che non aspettavano altro che di essere raccolti. Allora, a Napoli, il corallo veniva pagato molto bene dalle storiche fabbriche che lo lavoravano a Torre del Greco.

Renato e Luciano partirono. Effettivamente il corallo c'era, ed era molto pregiato. L'unica difficoltà consisteva nel fatto che si trovava fra gli 80 e i 100 metri di profondità.

Per due esperti come loro questo non era il problema, bisognava però calcolare la durata dell'immersione, comprensiva delle soste per la decompressione, in base alla capacità delle bombole. Raccontavano che per passare il tempo durante queste soste obbligate, giocavano alla morra cinese.

Un giorno se la videro brutta. L'erogatore di Renato si tranciò in parte contro un ramo. Luciano se ne accorse subito, ed entrambi capirono che dovevano risalire al più presto, ma c'era il famoso problema delle tappe per la decompressione. Si alternarono a prendere l'ossigeno da un unico boccaglio, e furono costretti a utilizzare anche i rispettivi bombolini di emergenza. Finalmente emersi, finirono entrambi nella camera iperbarica e questo cementò per sempre la loro amicizia.

Tornarono poi a Napoli. Vendettero molto bene il loro corallo, e aprirono un negozio di fronte all'imbarco degli aliscafi, a Via Caracciolo. 

Renato, forte della sua esperienza di velista, si occupò di rifornire il negozio di redance, morsetti, tenditori, passacavi, bitte, sagole, ecc.. erogatori, boccagli, maschere, pinne, guanti palmati, profondimetri, tabelle di decompressione, cinture con piombi, torce, pugnali e fucili, erano esposti nelle vetrine, mentre una serie di compressori lavorava a pieno ritmo per ricaricare le bombole. Oltre alle mute della Technosub, della Cressi e della Mares, Renato e Luciano, con una intuizione geniale, pensarono bene di confezionare le mute su misura. Comprarono rotoli di neoprene di vari spessori, e istruirono i due ragazzi che lavoravano con loro, a ricomporre i pezzi tagliati, sigillandoli con il mastice apposito. In un angolo del negozio c'erano boe, gavitelli, catene di tutte le misure, parabordi... Al lato opposto, cime e cordami, di manilla, canapa, nylon e ancore a ombrello e a due, a tre e a quattro marre.  Bussole, carte nautiche e anemometri erano conservate negli stigli. All'interno del negozio, a rotazione, venivano esposti i gommoni in vendita. Il più ambito era sempre lo Zodiac, che era anche il più costoso. I motori fuoribordo erano l'Evinrude, il Mercury e il Chrysler, oltre al simpatico Seagull, lento e sicuro, ma adatto ai gozzi e alle barche di legno.

Barche di legno che ormai, verso la metà degli anni '60, stavano purtroppo cedendo il posto alle imbarcazioni in vetroresina, indubbiamente più pratiche data la manutenzione pressoché nulla, ma che facevano inorridire i "puristi". Il top si raggiunse quando Luciano, tornato da una fiera nautica, impose in negozio dei battelli senza prua, ma con un ampio prendisole. Si chiamavano Boston Whaler, erano americani, ed erano più adatti ai fiumi che al mare. Nessuno avrebbe pensato che questa novità potesse incontrare successo, ma Luciano aveva la vista lunga. Contattò la ditta che li produceva: si fece inviare i due modelli sul mercato, li espose, e li vendette in una settimana. E in una stagione ne vendette una decina. Gli affari andavano alla grande, ma Luciano pretendeva sempre di più. Alle varie offerte aggiunse alcuni elementi di arredamento nautico (tovagliette, cuscini, vassoi, bicchieri, lampade in ottone etc). Intanto, sempre più persone compravano grandi motoscafi cabinati, e fu lanciata la pesca d'altura. E quindi nel negozio comparvero anche il sediolino rafforzato e orientabile, e il cinturone con la vaschetta per appoggiare la pesantissima canna. Con la sua chiacchiera Luciano sarebbe stato capace di vendere l'intera attrezzatura da sub anche a qualcuno che non sapeva nuotare.

Renato, più riflessivo e tranquillo, titubava, e avrebbe voluto sì allargare l'offerta, ma gradualmente, senza rischiare troppo. D'altra parte le cose andavano bene. Finirono per litigare. Luciano, convinto che Renato avrebbe mollato, propose di separarsi, e che uno dei due avrebbe liquidato all'altro la quota spettantegli. Si trattava di una grossa cifra, data anche tutta la merce in magazzino. 

Renato stette male, considerava questo negozio come una sua creatura. Si prese dei giorni per pensarci, e la tensione tra loro era palpabile. Si consigliò con i parenti, con gli amici. Alla fine si accordarono. Renato, facendo grandi sacrifici - anche perché aveva messo su famiglia - divenne l'unico proprietario di questo negozio, che entrambi avevano creato con tanto entusiasmo. Parlò con il proprietario del locale, e rinunciò alla zona destinata all'ufficio e a una vetrina dell'esposizione. Licenziò a malincuore la segretaria, e uno dei ragazzi addetti alla vendita, e si accinse ad affrontare con ansia e preoccupazione questa nuova avventura.

Luciano ci rimase malissimo. Stettero a lungo senza salutarsi, e pur trattando lo stesso ambiente, cercavano di evitare di incontrarsi. Luciano diventò yacht broker. Agiva sul mercato delle imbarcazioni usate, sia sulla compravendita, sia soprattutto per il noleggio. In genere questo lavoro viene svolto da un'agenzia, ma Luciano, forte della sua parlantina e della sua simpatia, lavorò in proprio con buon successo. Gli pesava però parecchio la rottura con Renato, e l'aver lasciato quel negozio per sempre. Dopo un paio d'anni tornò in Sardegna. Tramite amici comuni, chiedeva notizie di Renato, che faceva altrettanto. Ognuno dei due sapeva tutto dell'altro, e si preoccupava che le cose andassero bene. Poi si seppe che Luciano si era ammalato. Un amico dalla Sardegna chiamò Renato, dicendogli che Luciano voleva rivederlo. Renato si precipitò, dimenticando all'istante tutti gli screzi che c'erano stati. Partì la sera stessa. Lo trovò sciupato e sofferente, ma il sorriso dolce con il quale fu accolto, e l'abbraccio stretto, lo fecero sperare in una miglioria. Purtroppo non fu così. Renato gli rimase accanto come un fratello affettuoso, ricordandogli tanti tanti episodi, anche divertenti, degli anni trascorsi insieme. Quando gli lasciò la mano, in silenzio e a porte chiuse, pianse tutte le sue lacrime. 



domenica 30 giugno 2024

L'incanto

"...Che intender non lo può chi non lo prova"

Scendevo lungo il viale per raggiungere la mia casarella sul mare e mi inebriavo del profumo del caprifoglio, dei gelsomini e della resina dei pini. Era il tramonto, e le minuscole trombette delle belle di notte si schiudevano man mano, colorando di viola acceso i margini dei tornanti. Le cicale si erano improvvisamente zittite, e fra poco sarebbe iniziato il delicato concerto dei grilli. Nel momentaneo silenzio un garrire frenetico di uccelli attraversò il cielo, e stormi provenienti da tutte le direzioni si riunirono e iniziarono il loro saluto al sole, dividendosi in due, tre, quattro scaglioni, per poi ricongiungersi volando insieme velocissimi e disegnando meravigliose, incredibili figure simili a onde in burrasca.

Mentre lontano dalla vista l'astro sempre più rosso, annegando lentamente nel mare, colotava ad ovest l'aria di arancione,  la luna spuntava timida dietro la Montagna, per poi salire in alto e prendersi la scena. Mi sentivo una privilegiata, per poter assistere a tutta questa bellezza, e ancora ritengo di esserlo stata, sia per averlo potuto vivere, che nel poterlo oggi ricordare.

Quando c'era la luna piena, la scia luminosa brillava fin sotto alla terrazza, e a volte veniva momentaneamente spezzata per un attimo passaggio di un gozzo di pescatori. 

Avevo una gattina nera -Kalì, si chiamava-, che nei giorni di plenilunio scompariva. Era piccola, misteriosa, magica. Sapevamo che trascorreva la notte sugli scogli, in adorazione della luna, e quando ritornava, all'alba, profumava di mare.

Uno stormo di uccelli danza sulla collina di Posillipo 


domenica 18 febbraio 2024

La confessione

L'Istituto Nazareth era una scuola religiosa gestita da monache ed era ubicato su due piani di un grande, antico palazzo al Calascione. L'asilo e la scuola elementare occupavano il piano terra. Le grosse stanze che fungevano da aule affacciavano su due vaste terrazze che abbracciavano due lati dell'isolato. Al piano terra c'erano inoltre la cappella, il refettorio per le bambine che facevano il doposcuola, la presidenza, la stanza dei professori, l'economato. C'era anche un giardino con aiuole ormai cementate che ospitavano uno splendido, enorme albero della canfora, e qualche rachitico, malato e malandato albero di arance selvatico.

Al primo piano che si raggiungeva tramite una lunga scalinata erano alloggiate le "grandi". Infatti, dalle medie al ginnasio e al liceo, le alunne passavano al piano superiore. Tante stanza in fila, adibite ad aule, si raggiungevano passando in un corridoio ad elle, sul quale davano tutte le porte. Nell'ultima stanza, che affacciava sul giardino sottostante, c'erano i gabinetti. Un lavandino unico, stretto e lungo, che sembrava un abbeveratoio per le mandrie, era sormontato da vari rubinetti distanziati dai quali usciva soltanto acqua gelata. Poi c'erano tre gabinetti in fila, separati da pareti di Bruckner. La parte superiore non aveva soffitto.

Avevo dieci anni. Ero magrissima, leggera e agile. Mi venne in mente di fare uno scherzo. Entrai in uno dei gabinetti, mi chiusi dentro con il lucchetto (uno di quelli che si chiudevano facendo entrare la fascetta metallica in un passante di ferro), misi un piede sul bordo del water, con una certa difficoltà salii con l'altro piede sul pomo della maniglia, e a forza di braccia riuscii a tirarmi su aggrappandomi nell'angolo di una delle pareti divisorie. Mi accertai che non mi avesse visto nessuno e mi lasciai scivolare fuori.

Dopo una mezz'ora circa, dalla mia classe, sentimmo delle voci allarmate. Qualcuno aveva scoperto che uno dei gabinetti era chiuso dall'interno e che, pur bussando, nessuno rispondeva.

"IL PANICO!"

La vecchia Madre Superiora, agitatissima, chiese a tutte le insegnanti di fare l'appello e vedere chi potesse mancare. La vicepreside cercava disperatamente senza trovarlo il factotum della scuola : bassino, imberbe, leggermente sovrappeso, era uno di quei personaggi senza età e dal sesso incerto (scelto forse per evitare di cadere in tentazione) che spesso ruotano intorno alle comunità ecclesiastiche e religiose.

Una delle monache, più "ardita" delle altre, si offrì di salire su una scala e di affacciarsi dall'alto. La proposta fu accettata. Noi tutte partecipavamo con trepidazione, e vedevamo questa decina di monache che, affannatissime, camminavano avanti e indietro nel corridoio, scontrandosi come formiche impazzite. Finalmente l'ardita salì lentamente sulla scala, che era sorretta da tutte le sue agitatissime colleghe, con le braccia alzate. E mentre il sollievo fu grande perché si scopri che nessuna alunna era rimasta chiusa dentro, né si era sentita male, adesso nessuno poteva spiegarsi come il lucchetto avesse potuto chiudersi da solo.

Dopo qualche giorno arrivò un prete, che non potendo venire a benedire i... gabinetti, fu costretto a benedire anche tutte le classi e noi alunne. Le suore, pensando che forse qualcuna di noi fosse indemoniata, se avessero potuto ci avrebbero fatto esorcizzare. Intanto il famoso factotum, tornato da una commissione e messo rapidamente al corrente dell'accaduto, si calò a fatica dall'alto nello spazio ristretto, e aprí finalmente il lucchetto, facendosi anche lui le croci. Venne anche un falegname, che segò la parte bassa della porta di una ventina di centimetri.

Il prete che venne a benedire era il nostro parroco : un giovane sacerdote che veniva da un paese dell'avellinese e che mi conosceva bene, anche perché ogni domenica, dopo la messa, con mio padre, mia madre e mio fratello, andavamo in sacrestia a salutarlo. Mentre aspettavamo che si cambiasse, io notavo sempre un orrendo cuscino che occupava la seduta della sua poltrona. Era un cuscino rotondo, di seta grezza con un volant tutto intorno, e al centro c'erano tre papaveri rossi tutti aperti e un bocciolo verde, ricamati a punto a croce e a punto pieno.

C'era una certa signora della aristocrazia napoletana, molto riconoscente a mia nonna (non so perché), che ogni Natale la omaggiava di un cuscino fatto da lei e ad ogni pasqua le mandava un dolce tosto da morire, che sapeva di bicarbonato. I dolci, bene o male, venivano fatti fuori da me e da mio fratello, ma i cuscini erano sempre talmente brutti da non poter essere neppure riciclati. Ma questo, brutto come e forse più degli altri, fu destinato al nostro parroco che, per dimostrare di aver gradito, fu costretto a tenerlo in vista.

Ogni primo venerdì del mese tutte noi, in fila per due, e con in testa i veli bianchi, accompagnate dalle monache, andavamo a prendere la comunione alla chiesa di Santa Maria degli Angeli. Il giorno prima il nostro parroco era venuto al Nazareth a confessarci. Alla fine della mia confessione, dove gli raccontavo che avevo litigato con una compagna, che avevo risposto male a mia madre, che avevo detto una bugia e altri peccati veniali, lui mi domandava : "Sei sicura di non avere altro da confessare?" - "No", rispondevo io, che invece avevo il mariuolo in corpo.

Al piano inferiore, in fondo ad un corridoio cieco e poco illuminato, c'era un poster gigante che rappresentava un triangolo con all'interno un unico occhio che sembrava guardarmi da qualsiasi direzione io venissi e sotto, a lettere cubitali, c'era scritto "DIO TI VEDE".

Mi aveva sempre impressionato quell'occhio, e quando passavo da lì chiudevo gli occhi e passavo di corsa. Figuriamoci adesso!

Il secondo mese, alla confessione successiva, quando il prete mi chiese ancora una volta se avevo altro da confessare, fui io a chiedergli: "Se le dico una cosa, mi giura che non lo dirà mai a nessuno?". Lui si alterò, e mi rimproverò dicendomi che giurare è peccato, e che oltretutto io avrei dovuto sapere che la confessione è un segreto tra il peccatore e il prete. E allora io, in parte confortata, raccontai che non c'era stata alcuna diavoleria, ma che ero stata io a chiudere la porta del gabinetto per movimentare un po' la giornata. Il mio parroco, per penitenza, mi fece recitare una caterva di avemaría e paternoster, ma ebbi l'impressione che la cosa lo avesse un po' divertito. Aspettò che io finissi le mie preghiere, si venne a sedere vicino a me, mi fece ancora una ramanzina, e poi volle sapere come avevo fatto. Da allora, ogni volta che mi incontrava in chiesa da lui, o per strada, o al Nazareth, mi salutava e avevo sempre l'impressione che gli scoppiasse da ridere. 


La mia prima elementare al Nazareth


giovedì 19 ottobre 2023

il Carcere di Procida

Li vedevamo.
Almeno un paio di volte, in estate, con il gozzo di Mario o con quello si Sasà, ci imbarcavamo a Giuseppone e raggiungevamo Procida. La nostra era una bella comitiva di ragazzi semplici ed entusiasti. La meta era sempre quella : andavamo ad ancorarci oltre il ponte di Vivara, lasciandoci a destra questa mezzaluna di terra, disabitata e miracolosamente scampata all'assalto edilizio. Per arrivarci passavamo sotto al Castello che torreggiava in alto maestoso e inquietante. E li vedevamo.
Si accalcavano alle finestre con le inferriate doppie, richiamavano la nostra attenzione con suoni gutturali, sventolavano asciugamani, teli, camicie, per salutarci. Data l'altezza del castello non potevamo riconoscerli. Vedevamo soltanto le loro sagome che si alternavano davanti alle finestre. Rispondevamo al loro saluto con superficialità, come fosse un gioco. 
In quei momenti nessuno di noi forse pensava che per questi poveri reclusi la bellezza della vista che potevano godere dall'alto e il nostro passaggio spensierato sotto le loro celle potesse aggiungere un'ulteriore pena per la loro privazione della loro libertà. Né pensavamo, noi privilegiati, che ognuno di loro potesse avere avuto un trascorso di miseria, violenza, degrado.

Facevamo il bagno in questo mare pulitissimo (ricordo che legavamo con una sagola le bottiglie di acqua e di 
birra e le lasciavamo affondare per tirarle su belle fresche) e al tramonto tornavamo a Posillipo affrontando (!) il canale di Procida del quale allora tutti avevano timore sia per il traffico di natanti che per le correnti a volte impreviste.

Lavoravo in piscina alla Mostra D'oltremare e dopo il lavoro giravo per gli stand quando c'era la fiera della casa. Con mia sorpresa nella prima edizione, in uno degli stand erano esposti i lavori dei detenuti di Procida. Tovagliati di lino e di canapa, tende e lenzuola di fattura egregia. C'erano tre o quattro reclusi in permesso premio, accompagnati dalle guardie carcerarie. Sedevano dietro ai loro lavori esposti, e avevano lo sguardo triste e smarrito. Comprai quello che potevo, feci loro una gran pubblicità. Parlando con loro seppi che oltre al lavoro ai telai c'erano i tintori, i falegnami, i calzolai, i sarti che cucivano le divise per guardie e carcerati, e c'era anche una legatoria che lavorava per l'esterno.
Imbarazzata e un po' in soggezione parlai con uno di loro. La guardia che lo accompagnava mi raccontò che molte ragazze dell'isola usavano ordinare il loro corredo da sposa ai detenuti. C'era poi una giornata alla settimana in cui gli isolani potevano accedere all'enorme cortile del castello e comperare la frutta, le verdure, e i legumi che altri reclusi coltivavano nel grande orto alle spalle della facciata che si vedeva dal mare. 

Nel 1988 il carcere di Terra Murata è stato definitivamente chiuso, ed è stato acquisito dal comune di Procida, ma io adesso continuo a pensare agli ergastolani (pochi, ma c'erano anche quelli) che hanno visto per l'ultima volta lo spettacolo colorato della Corricella prima che il portone per loro si chiudesse per sempre.






 


mercoledì 20 settembre 2023

Con gli occhi del cuore...

I ricordi sono ormai sempre più lontani nel tempo, ma sempre più presenti nella memoria. Spesso il mio pensiero torna a Giuseppone dove ho trascorso gli anni più felici della mia ormai lunga vita. Allora rivedo uno specchio d'acqua roseo e tranquillo al tramonto, i gozzi di Totonno, di Mario, di Gogo, di Sasà, di Ninì Marra, il Buci di Geppino Mauro (signor Buci per i pescatori) - tutti allineati davanti alla scogliera -, e a chiudere il cabinato bianco e rosso dell'avvocato Marandola.

Come in tanti fotogrammi rivedo Barbetta, che solo e in silenzio, con il mento sollevato, scruta l'orizzonte; Giovannina, che con la sua stazza occupa tutto il vano della finestra, Bastiano che dirige il traffico col fischietto, Luciano che vende le cozze vicino alla fontana, Chiuvillo assorto nei suoi pensieri, 'Zi Peppe seduto in barca con la sua canuzza Maruzzella, Stratuccio che sistema i canotti, Totonno e Michele che discutono seduti su un cassone che contiene cime e ancore.

Affacciata alla finestra della verandina c'è Zia Emma, mentre Zia Nannina, sempre sorridente, mi saluta dall'uscio della sua stanza. Mariella, col marito Raffaele, mi invita come sempre a prendere il caffè, Antonio Preziosi, fine carpentiere, insieme ai suoi nipoti, sta dando le ultime rifiniture ad una barca; Rosa, circondata da tutti i suoi bellissimi bambini, Annamaria che riprende il figlio Pasquale, Carminiello che pompa l'acqua dal motoscafo che gli è stato affidato, Bob con la strana imbarcazione che ha costruito da solo, Vincenzo Manomozza, seduto sul terrazzino con la moglie Concettina, a godere la luce del tramonto...

Tutti ai loro posti, come pastori del presepe, dove ognuno occupa il proprio spazio.

Intanto, con il loro canotto grigio, rientrano remando, in piedi e con un remo ciascuno, i Tripolini, reduci da una giornata di pesca, e subito dopo Luigi del Casale, che al mattino si ripara dal sole con un vecchio borsalino di mio padre, sotto al quale tiene i ranci felloni per catturare i polipi. 

Guardo tutto con gli occhi del cuore, come dice la mia amica Carmela Cafarelli, e il ricordo di quella atmosfera di pace mi fa sorridere e mi rasserena.



sabato 4 marzo 2023

La Birreria Marchese

A Piazza Sannazaro, alla destra della galleria venendo dal viale Gramsci, che una volta si chiamava viale Elena, esisteva una birreria. Una targa rettangolare scura, posizionata in verticale, rappresentava un cameriere con i capelli e il camice bianco con cravattino nero che reggeva in mano due boccali di birra traboccanti di spuma. Non poteva passare inosservata, ed era il richiamo per la Birreria Marchese.
Era questa allocata in un piccolo vano, e dall'esterno si vedevano sulla destra degli enormi distributori di birra che veniva servita alla spina. Il proprietario, il signor Marchese, aveva due figlie, due belle ragazze, una bionda e una bruna. La bionda, forse più grande, più sicura di sé, riempiva velocemente i boccali all'interno del locale; la bruna, più timida, prendeva le ordinazioni per le caponate che si gustavano fuori, all'aperto, sui tavolini pieghevoli a listelli di legno che occupavano i pochi metri liberi avanti all'ingresso del locale. 
Le "marchesine" erano ragazze serie, che tenevano a bada con ferma cortesia i giovanotti e i loro sguardi di ammirazione.

Avevo forse sedici anni, quando insieme ai miei compagni di comitiva ci spingemmo fino a Mergellina, dove per la prima volta assaggiai un bicchiere di birra, trovandolo amaro e non capendo, allora, come potesse piacere.
Passammo poi fra i tavolini, dove persone semplici e pescatori apprezzavano freselle rotonde con il buco al centro, inumidite per spugnarle e condite con pomodoro fresco, insalata verde, rucola, olive nere, olio e acciughe.
Ricordo che comprammo l'altra specialità della birreria: i taralli napoletani -quelli con la sugna, il pepe e le mandorle- che andammo a rosicchiare affacciandoci sulla spiaggetta di Sermoneta, per poi raggiungere la fermata del filobus che ci avrebbe riportato a casa.






mercoledì 14 dicembre 2022

I Lignano seniores. Le vacanze serene di una coppia affiatata

Dedicato a Marco, Alberto, Irene, Silvana e Nando


Marito e moglie, posillipini autentici.
A metà mattinata scendevano a Riva Fiorita con la loro utilitaria e la riponevano nella grotta-parcheggio dove l'avrebbero ritrovata fresca al loro ritorno.
Il marito prendeva dall'auto la tanica con la nafta e si recava da Zì Rafele, che lo aspettava sulla banchina a fianco alle docce per consegnargli i remi e l'ancora che aveva custodito in una delle cabine sotto la terrazza, e poi lo traghettava sulla barca. La signora, intanto, si era recata sulla spiaggia, e salutava innanzitutto sua figlia, il nipotino e il genero, che invece scendevano a mare la mattina presto. Poi c'era un rapido giro di saluti a tutta la prima fila di ombrelloni, impiantati quasi sul bagnasciuga.
Intanto suo marito, con un pantaloncino candido e un cappello bianco di stoffa con le falde, dopo aver travasato la nafta nel serbatoio del fuoribordo, e aver fatto partire il motore, sganciava la cima dal passacavi e prelevava dalla spiaggia la moglie e il nipote.
Il ragazzino biondo, longilineo, con una perfetta abbronzatura dorata, raggiante di felicità raccoglieva maschera e pinne e saliva sulla barca del nonno. Sapeva che, superata la scogliera di villa Rosebery, seduto accanto al papà di sua madre, questi gli avrebbe permesso di tenere il timone. La nonna, liberatasi dalla vestaglietta di cotone, sedeva beata a prua nel suo costume nero. Passavano lentamente sotto costa, accompagnati dal lieve borbottio del fuoribordo, e godevano appieno la "bella giornata" di cui parla La Capria.
Uno, due, tanti bagni, dove più gradivano, e tappa nella calma baia di Trentaremi per uno spuntino portato da casa. 
Nel percorso inverso spesso arrivavano fino a palazzo Donn'Anna, e rientravano poi appagati e trionfanti nel porticciolo di Riva Fiorita. Una volta arrivati a casa, mentre stendevano ad asciugare i teli e i costumi dopo averli sciacquati, si affacciavano al balcone per vedere di nuovo il mare, perché ai posillipini veri il mare... Non basta mai.